In mezzo (Talk About Records) appartiene a quella categoria di dischi che paiono luoghi fisici ben definiti. L’atmosfera è quella notturna di un locale anni ’50, con l’aria appesantita da aromi alcolici. Sul piccolo palco i musicisti hanno perso via via giacche e cravatte, indossate molto professionalmente a inizio spettacolo. Ora le maniche delle camicie chiare sono arrotolate fino ai gomiti, quasi a imitare Valentino Mazzola intento a caricare il grande Torino. Fra i visi scavati degli astanti pare di scorgere quello di Paolo Conte, intento a dialogare con Tom Waits nella penombra di un tavolino isolato, mentre dal palco si abbatte sui presenti un uragano di note che avrebbe fatto sorridere Fred Buscaglione e Renato Carosone.
Gli artefici di tutto ciò rispondono a un nome lungo, ma suggestivo: La città di notte, dietro cui si nascondono Diego Pani (voce), Andrea Schirru (pianoforte), Edoardo Meledina (contrabbasso) e Frank Stara (batteria). L’abilità dei musicisti nello spaziare fra diversi generi arricchisce il mix irresistibile di jazz, swing, blues e cantautorato che caratterizza un album capace di raccontare momenti diversi, ben disegnati musicalmente con un’attitudine quasi punk.
Sono undici le canzoni che si inseguono a rotta di collo, vive e pulsanti, abitate da personaggi interessanti con una storia da raccontare. Come quella di Bartolomeo, sabotatore in azione durante la seconda guerra mondiale, dipinto con la frenesia trascinante che ritroviamo anche in 34.000 ore, la quale appare un riferimento diretto ad Adriano Celentano non solo nel titolo. Ma dentro In mezzo troviamo anche momenti più scuri e riflessivi come Sink o Miseria, un inaspettato Tango velenoso, il tempo in ¾ di Valzer e il blues malsano di Blank Generation. Ogni brano è caratterizzato da idee pianistiche strabordanti dai colori a tratti scuri e a tratti più brillanti. L’esoscheletro ritmico è fornito da batteria e contrabbasso, i quali supportano magistralmente situazioni e stati d’animo diversi, mentre la voce vaga, perennemente sospesa fra un graffio e un sussurro.
Siamo di fronte a un lavoro fuori dal tempo su vari fronti: il genere è quanto di più lontano si possa immaginare dagli ascolti radiofonici attuali caratterizzati da suoni abbacinanti, capaci di occupare qualsiasi frequenza possibile in nome della loudness war. La scelta di incidere tutti i brani in presa diretta, senza alcuna sovraincisione o particolari accorgimenti di post-produzione, immortala come in una polaroid non solo la gran perizia del combo, ma anche un suono immediato e diretto, a volte increspato e sporco. La produzione riporta al centro dell’ascolto una formazione che respira grazie alla sua essenzialità, e che sa come conferire una dinamica affascinante non solo all’opera nella sua interezza, ma anche alle singole parti che la compongono.
In mezzo potrebbe essere un programma televisivo di Renzo Arbore, ma è anche e soprattutto un back to basics coraggioso e quasi necessario, una resistenza rispetto a un panorama musicale di apparente perfezione sonora.