Entriamo subito nel vortice di un mantice sfruttato in tutte le sue possibilità, vivendo questo disco. E ne usciamo fuori con la consapevolezza di aver vissuto appieno un’autentica esperienza di ascolto partecipe e artefice. Anche perché l’organetto di Pierpaolo Vacca non è l’unica entità suonata in questo viaggio. A essere azionato è l’intero universo acustico della tradizione sarda, noi compresi, che siamo parte veicolare e cardiaca di questo grande cerchio, sebbene spesso con l’orecchio staccato dal suolo di quest’isola, in cerca di altri battiti. Di ali e di radici ce n’è qui un intero dizionario come se le etimologie e i sinonimi forgiassero una nuova fonetica diatonica capace di unire tempi e distanze, distopie e danze.
La promessa di non scomodare nomi sacri dello strumento come Kepa Junkera e Ambrogio Sparagna non può essere mantenuta. L’innovazione del conosciuto, l’innovazione nel conosciuto, non può essere taciuta. Ma le dita di Ovodda salgono dedite scale e scorgono inediti effetti in tutta la prima metà del lavoro (e in effetti, forse, l’unico neo del disco è quello di aver suddiviso quasi alla perfezione le tracce, con la seconda parte più canonica). In questa fioritura non vanno dimenticati gli innesti di Dj Cris, Fabio Calzia, Nanni Gaias e Dino Rubino. Con “Travessu”, Pierpaolo Vacca ci regala un film da ascoltare, un ballo interiore, una nuova riscoperta di noi stessi, una sintassi resistente che si fa spazio in una scena non sempre capace di reinterpretarsi.