Mauro Amara, classe 1979, è nato a Cagliari, dove tutt’oggi risiede. Al netto di qualche piccola esperienza precedente, ha iniziato a suonare dal vivo come chitarrista e tastierista nel 1992 con la band del fratello “Salvatore Amara & The Easy Blues band”. Da quel momento non ha più smesso e ha fatto esperienza in decine di progetti tra cui gli “All sun rockin’ jive quartet” di Alberto Sanna e i “Route 66” dove ha esordito come cantante.
Negli anni successivi, tra Milano e Torino, si confronta e solidarizza con nuovi musicisti come “Fabio Nobili blues project” e forma “Mauro Amara & the Southern Kitchen”, poi si unisce a Max “Big Harp” Casazza e la big band “Tony Mezzacarica & the Woogie Maker”. Nel 2017 ritorna definitivamente a Cagliari dove prosegue l’attività musicale.
Ci troviamo tra i dischi di uno dei negozi più resistenti in città, “Alta Fedeltà”. Tra gli scaffali pieni di musica e qualche libro ci addentriamo nella nostra conversazione mentre la musica spinge le note del blues texano dei fratelli Vaughan in ogni angolo.
Ciao Mauro, bentrovato. La tua attività musicale è intensa e viaggia lungo un percorso di vari decenni, ce la riassumi e ci parli dei tuoi progetti attuali?
Ciao. La mia attività musicale si muove da qualche anno con tre band, The Easy Blues band, i Route 66 e soprattutto i Music Row District, progetto fondato al mio rientro a Cagliari dopo il secondo viaggio in alcune “capitali” simbolo del mio mondo musicale negli U.S.A.: Memphis, Nashville, Clarksdale e New Orleans. Così la vena country e rock, suonata parallelamente al blues, ha preso forma.
Ci racconti delle tue prime esperienze?
Il blues rappresenta il mio primo approccio con la musica in generale. É stato mio fratello a insegnarmi sia la teoria che la pratica sulla chitarra. Avevo sei anni. Ho avuto la fortuna di fare un percorso ordinato, partendo quindi dal delta blues e conoscendo solo successivamente i suoi generi derivati. Già a 13 anni mi guadagnavo qualche soldo suonando nei locali.
Sei riuscito a trasformare la musica in un lavoro stabile o renderla un’occupazione remunerativa? In caso contrario, hai mai sperato lo diventasse?
Ho sempre preferito avere un’altra occupazione principale. Sono convinto che se vuoi vivere di questa arte la decisione va presa da molto giovane e all’epoca io non avevo le idee chiare. Sulla scelta incidono diversi fattori: la motivazione, il talento, la fiducia nell’ambiente socio culturale, la propensione al rischio. Altre volte potrebbe indicarti questa strada il fatto che è l’unica cosa che sai fare. Io ho fatto altre scelte di cui sono soddisfatto.
Secondo il tuo parere, quale è lo stato di salute della musica di cui ti occupi? Che tipo di mercato ti trovi a osservare o ad avere a che fare?
Non gode di ottima salute perché non fa parte della nostra cultura. É una musica poco conosciuta, poco diffusa e quindi poco apprezzata dalla maggioranza della gente, è senza dubbio meno interessante come investimento per chi gestisce attività legate alla scena live e alla produzione.
Le possibilità di concerti sono in costante diminuzione, per minore disponibilità di palchi, locali o piazze e diminuisce così anche la partecipazione. Qual è la tua fotografia della situazione sia sul palco che fuori? C’è un ricambio generazionale?
Oggi la media dell’età del pubblico che segue i miei concerti è circa cinquant’anni. I ventenni sono un vecchio ricordo degli anni ‘90. Hanno evidentemente altre preferenze musicali, dedicano meno tempo a suonare uno strumento e meno interesse a cercare il confronto nella scena live. Più passa il tempo e più si alza l’età anagrafica del pubblico.
Se fossi nel ruolo di organizzatore e dovessi escogitare qualcosa per portare i più giovani ai tuoi concerti, come ti muoveresti?
Bisogna anzitutto rafforzare l’interesse per la musica nelle scuole pubbliche e private. É necessario poi cercare una connessione tra gli studi in aula e il futuro del musicista, quindi non limitare il percorso dello studente solo all’apprendimento musicale. Sarebbe opportuno concentrare le attività sull’esercizio di gruppo e stimolare gli alunni a seguire la scena live. I media dovrebbero dare più spazio alla musica suonata a tutti i livelli e non raccontare solo il caso legato ai talent show e alla tv perché si corre il rischio di far passare un unico messaggio per cui non è necessario suonare bene per avere successo.
Blues e country oggi si portano dietro sicuramente un’idea estetica, almeno per i motivi commerciali dei produttori, ma molti brani prendono spunto e raccontano di forti ingiustizie sociali e personali. Qual è il tuo equilibrio tra questi due aspetti?
Il contributo culturale di un genere musicale può variare notevolmente a seconda del contesto storico, geografico e sociale in cui si sviluppa. Il blues affonda le sue radici nelle difficoltà della vita quotidiana e nelle esperienze emotive intense. Io lo suono, ma per fortuna non lo vivo come condizione. Il country si basa sulla capacità di connettersi con le esperienze umane universali attraverso storie sincere, autentiche e semplici. Questo genere risuona di più con il mio stile di vita.
Come ti collochi artisticamente e musicalmente, qual è il tuo ruolo nel prossimo futuro?
Nelle prossime esperienze musicali, il mio desiderio è focalizzarmi esclusivamente sulla chitarra e lasciare da parte sia la tastiera che il canto
Cosa ascolti e cosa ci consigli di ascoltare in questo periodo?
Generalmente ascolto musica legata allo studio dei brani che compongono il repertorio delle band. Oggi soprattutto bluegrass, in particolare Billy Strings, che consiglio vivamente.
Quale produzione hai in lavorazione o programmata per il prossimo futuro?
Il nuovo disco degli Easy Blues Band cioè la seconda parte di “Payin’ the cost to be the blues” (2022) omaggio a Robert Johnson.
Prima di salutarci, consigli un musicista o un disco made in Sardegna ai nostri lettori?
Il disco che consiglio non è made in Sardegna, ma l’artista si. Parlo di Michele Taras, rientrato in Sardegna dopo decenni trascorsi negli States: “Do the Right Thing”.