È tutta scena! – Luca Devito

Simone La CroceÈ tutta scena!, Interviste

Emblemi della rubrica “È tutta scena” sono quei personaggi che lavorano alacremente dietro le quinte e lontani dai riflettori per far sì che le cose, qui, si facciano davvero. Luca Devito è uno di loro. Braccio destro e stretto collaboratore di Paolo Fresu da ormai più di vent’anni, ha messo mano a tutte le iniziative promosse dal trombettista berchiddese, a partire dal Time in Jazz fino ad arrivare a Insulae Lab e a TUK Music, label nata qualche anno fa con un catalogo che conta ormai decine di protagonisti del jazz nazionale e non solo, di cui ricopre il ruolo di coordinatore di produzione. Luca nasce come musicista tra la scuola civica di Nuoro e il conservatorio di Sassari, parte come tanti a Bologna verso la fine degli anni novanta e lì si laurea in Etnomusicologia al DAMS. Da quel momento si dedica a tutto quello che può avere a che fare con la musica: luci, palco, produzione, direzione tecnica, scena, tour, comunicazione. Non poteva che venirne fuori un’intervista corposa e articolata, ma il materiale, umano e curricolare, era oggettivamente invitante e Luca, fortunatamente, non è uno che si tira indietro quando si tratta di argomentare e sviscerare le questioni. 

Nella tua carriera hai coperto una caterva di ruoli diversi (direttore tecnico, coordinatore di produzione, direttore di palco, disegno luci, direttore di produzione, docente, direttore di scena, tour manager, ufficio stampa). Ce n’è uno in particolare a cui ti piace o ti piacerebbe tornare?

La maggior parte dei ruoli che ricopro in questo momento li svolgo con continuità, per cui mi piacciono un po’ tutti. Forse l’ambito a cui preferisco dedicarmi ultimamente sono le luci, perché rappresenta un po’ la sintesi di tutto quello che che ho fatto finora e perché è un ruolo dietro le quinte per me molto creativo. Tutto quello che implica sedersi di fianco all’artista e contribuire a dargli un’immagine intervenendo direttamente sullo spettacolo, è quello che forse sento più vicino.

Che poi tu non nasci “tecnico” o “creativo” in questo senso…

Si, in realtà io nasco musicista. Ho fatto la scuola civica di Nuoro e ho studiato flauto al Conservatorio di Sassari, dove andavo a dare gli esami come privatista. Solo dopo sono passato dietro le quinte. Lavorare alle luci, alla direzione tecnica e anche alla parte creativa dell’etichetta di Paolo è la cose che mi piace di più, perché mi mette più a contatto con chi crea, chi ti consegna un disco o ti chiede un consiglio su come sviluppare un video o una strategia promozionale. E anche perché posso metterci un po’ di quella che è la mia esperienza di ascoltatore, di melomane e di fruitore dello spettacolo.

A proposito di Paolo. Hai messo lo zampino in praticamente tutte le sue principali iniziative e sei diventato il suo assistente personale. Se ti chiedessimo un suo pregio probabilmente non sapresti neanche da dove iniziare. E probabilmente molti di quelli che diresti, i nostri lettori hanno già avuto modo di conoscerli. Quindi ti chiediamo quale possa essere un suo difetto.

Bellissima domanda. Adesso siamo in giro con questo spettacolo su Miles (Kind of Miles, ndr) in cui lui, a un certo punto, racconta del suo primo disco del 1984, che si intitola Ostinato. Ecco, direi che questa potrebbe essere una risposta. A volte Paolo sa essere particolarmente ostinato. E sai che da nuorese lo sono anche io a mia volta, per non dire cocciuto o testardo. Un difetto che potrebbe anche essere uno dei suoi pregi più grandi, perché quando ha un’idea la porta avanti con tutte le sue armi, nel bene e nel male. E lui testardo lo è anche artisticamente. Ovviamente discutiamo delle cose, ma non è semplice allontanarlo dalle sue idee iniziali, anche se ha anche una grande capacità di ascolto, dote rarissima in questo campo, e sa anche fidarsi delle persone a lui vicine. Alla fine pondera tutto per poter avere una visione più ampia possibile e le sue conclusioni sono figlie di questo percorso. E i fatti poi finiscono per dargli ragione.

Credits Believe/ Face to Face

Torniamo a te. Tu vieni dall’hip-hop, peraltro dalla scena nuorese che negli anni ‘90 era particolarmente viva… 

Si, vengo dal mondo dell’hip-hop e da quello del reggae di quegli anni. All’epoca esisteva già il nucleo di quelli che poi sarebbero diventati i Menhir, miei cari amici. Io suonavo in un gruppo reggae che si chiamava Cantande Reggae, poi confluito nei Reggae Realidad, una delle prime formazioni in Sardegna. Era l’epoca in cui i Kenze Neke erano usciti nel disco antologico della Gridalo Forte. Insomma la scena nuorese era veramente al top e c’era un sacco di roba: gente come i Vok Rebelde, che suonano ancora oggi, i Testimoni Incandescenti, una scena incredibile.

Una scena viva non solo da un punto di vista musicale, ma anche da un punto di vista “socio-culturale”, intendendo il fatto che fosse radicata nella cultura giovanile e che avesse dietro un sostrato fatto di look, slang, interessi ed espressioni artistiche comuni. Rap e hip-hop hanno subito importanti evoluzioni negli ultimi decenni, sia in termini di numeri sia in termini musicali. A tuo avviso si è registrato anche uno scollamento tra musica e sottocultura associata al genere?

La sottocultura associata al genere è cambiata inevitabilmente, non so dare un giudizio su questa nuova sottocultura perché siamo, e sono, già vecchio. Sicuramente quello che posso dire io è che un tempo era molto più difficile creare un business intorno alla musica. Noi siamo stati molto poco capaci nel monetizzare l’arte che promuovevamo. Oggi mi sembra che siano bravissimi nel promuoversi, nel vendere il prodotto e mi pare che il contenuto sia meno interessante. O forse è quello che ci raccontiamo perché stiamo invecchiando. È molto difficile. Di sicuro mi capita sempre di tornare all’hip-hop degli anni in cui sono cresciuto e vedo che spesso tanti giovani vanno lì a cercarsi la verità. Però è davvero difficile sapere quale sia la verità oggi, dove lo è stata un tempo o se quella di un tempo è una verità che ci piace raccontare.

Spiegati meglio.

Ti faccio un esempio stupido sulla questione dell’hip-hop. Ci sono questi ragazzi di un’associazione di Nuoro, credo si chiami Nepò e di cui in fondo io non so nulla. Loro hanno portato praticamente il meglio di questa nuova scena hip-hop: Neima, Massimo Pericolo e tutta una serie di progetti che noi ai nostri tempi ci sognavamo. Allora quello che poteva arrivare in zona arrivava, per dire, grazie a Kenze Neke e Askra, ma difficilmente poteva arrivare il mega gruppo di rock indipendente. Anche solo formazioni come gli Africa Unite venivano veramente di rado. Prima i concerti ce li sudavamo. Ora i ragazzi che questa roba riescono a portarla. E mi sembra che lo facciano con molta facilità. Per cui, forse è vero che il sottobosco culturale si è impoverito, ma sono aumentate le possibilità. 

Credits Paolo Soriani

Quindi ha ragione chi in qualche modo le cose le fa…

Beh, si. Quando ti riferisci a come eravamo, al fatto che parlavamo tutti allo stesso modo e via dicendo, forse dovremmo anche riconoscere di essere stati per certi versi anche molto settari. Poi si può anche dire che quell’attitudine, in quel momento, era necessaria e ha preparato il terreno, siamo d’accordo. Però questi ragazzi hanno seminato e stanno raccogliendo tantissimo, per quanto io non ami questo appiattimento generale, per esempio nelle scelte dei titoli o nel fatto che tre quattro autori ormai scrivono tanto le canzoni di Geolier quanto quelle di Cesare Cremonini.

Tra un incarico e l’altro hai trovato il tempo di dedicarti anche ad alcune importanti espressioni della musica tradizionale sarda. Cito la mostra Sonos – gli strumenti musicali della tradizione, di cui sei stato ideatore una dozzina di anni fa in occasione di un Time in Jazz, la pubblicazione del volume “Cuncordu e Tenore de Orosei – il canto: mare e terra”, e relatore per un incontro con il Cuncordu e tenore de Orosei, che risale al 2006, una delle tue prime esperienze nel settore. Dove nasce questo interesse per il canto a tenore e quali erano i punti di incontro con la tua cultura musicale di provenienza?

Mi è sempre piaciuta la musica tradizionale, ma non ti nego che l’ho capita solo quando sono andato a studiare a Bologna. Lì ho sentito la necessità di tornare a quella che era la mia la mia vita e ai luoghi in cui sono cresciuto. A casa il sardo non si parlava, ma si parlava il calabrese perché mio padre, calabrese appunto, la tradizione l’ha portata con sé. Mia madre invece il nuorese non lo parlava molto, per quanto lo conoscesse bene e fosse la lingua con cui comunicava con la famiglia.

Quando sono arrivato a Bologna ho avuto la possibilità di vedere un concerto del Cuncordu di Orosei, all’epoca stava iniziando il progetto con Reijseger (il violoncellista Ernst Reijseger, ndr). Mi aveva colpito il fatto che, quando mi sono presentato da loro dopo aver visto il concerto, non mi abbiano trattato come il ragazzo sardo che sta studiando a Bologna e che vuole fare il bolognese. Mi hanno accolto calorosamente e mi hanno permesso di entrare in quell’ambiente, aprendomi tutta una serie di porte, perlopiù mie mentali. Da quel momento ho iniziato ad ascoltare più musica tradizionale e ad approcciarmi a tutta una serie di cose che piano piano sono sono entrate nella mia vita. Tutto sommato in ritardo, perché nei miei anni sì cantava prevalentemente in italiano solo marginalmente in sardo. E questo è esemplificativo del fatto che quel tipo di approccio si è consolidato nelle nostre vite più o meno a cavallo tra la fine degli anni novanta e i primi duemila, tra gli ultimi anni di liceo e i primi fuori dalla Sardegna. Oggi riconosco di essere dovuto andare via per capire questo attaccamento alle mie tradizioni.

Credits Francesca Sara Cauli

Insulae Lab, “il primo centro di produzione della musica jazz e della creatività artistica delle isole del Mediterraneo”, ormai procede spedito dal 2022. Tra le produzioni di questi anni, ci sono anche nomi più o meno giovani che sono passati anche dalle nostre pagine. Penso a Nanni Gaias, Angus Bit, Pierpaolo Vacca, Marta Loddo, Simon Balestrazzi. Però in netta minoranza rispetto alla totalità dei personaggi coinvolti. Fate fatica anche voi a trovare nuove proposte interessanti tra le nuove leve?

Allora, io ho abbastanza la puzza sotto il naso da questo punto di vista, ma sono critico in genere verso tutto. Non è facilissimo rispondere. Ti confermo che tra l’altro quelli che citi per me sono tra i nomi più interessanti. Gente come Pierpaolo sta facendo sfracelli, è uno che dove lo metti sta. A Vicenza Jazz la gente era in visibilio. O come Daniela (Pes, ndr), che quando venne da noi e credo non avesse ancora incontrato Jacopo (Iosonouncane, ndr), era evidente che sarebbe esplosa. Poi chiaramente si è allineato tutto ed è esplosa mille volte di più. 

Devo confessarti che non trovo cose che mi colpiscono troppo nelle nuove leve. Forse non non ho così tanta conoscenza di quello che c’è. Ieri c’era Paolo a pranzo, stavamo parlando di nuovi nomi sardi e non ti nego che ho dovuto rimandare perché non sapevo dargli un nome nuovo da coinvolgere in qualche progetto. Forse ne conosciamo troppo pochi, perché alla fine già io ho 45 anni e alle pagine dei ventenni non ci arrivo o non so come arrivarci. 

Ecco, una questione che ci porta dritti a TUK. Sul sito si legge “l’idea basilare del progetto è quella di produrre soprattutto nuovi talenti del panorama jazz (ma non solo) italiano e straniero”. Noi siamo chiaramente interessati a quello che succede nell’isola e ci capita un po’ troppo spesso di riscontrare come le nuove proposte in ambito jazz non siano tantissime o perlopiù non siano così nuove come sarebbe lecito aspettarsi. Avendo studiato al conservatorio e conoscendo inevitabilmente le dinamiche isolane, a quali fattori credi sia dovuto questo?

Personalmente credo che i conservatori, così come le università, in tutti i filoni della musicologia, non parlino alla gente. Te lo dico brutalmente: quando arrivano delle richieste o degli stimoli dalle istituzioni, università e conservatori compresi, io mi sento male perché so già che andrò a parlare con qualcuno che non sta minimamente vivendo il presente. Ho paura che in un certo tipo di ambiente, che in Sardegna è molto consolidato, la cultura alternativa si esprima con molta difficoltà. 

Poi occorre anche ragionare sui luoghi. È di questi giorni un’intervista nella quale Capossela interviene durissimo sul fatto che in Italia non ci siano locali in cui suonare. In Sardegna la situazione è pure peggiore e il discorso è anche molto più vasto di così. Noi abbiamo uno spettacolo teatrale che prevede una scenografia complicata, lunga dodici metri. In Sardegna possiamo farlo solo al Teatro Massimo. Fine. Ma non ci sono veri spazi neanche per la cultura alternativa in generale. Forse c’è qualcosa a Cagliari, ma capirai che è troppo poco. A Nuoro, una città che conosco abbastanza bene, anche se ultimamente la vivo meno, non c’è un locale dove fare musica dal vivo. Ci sono stato di recente e ho sofferto per quello che ho visto: la città sta morendo nell’incuria e non ci sono posti di aggregazione. Dove si incontrano i ragazzi? Dove può nascere un percorso diverso? Per incontrarsi nei conservatori devono essere davvero molto fortunati. A me gli occhi me li ha aperti quello che è successo collateralmente al Conservatorio. Mi spiace dirlo, ma devo ammettere che è così.

Credits Andrea Rotili

Di TUK Music sei coordinatore di produzione, di cui Paolo è Direttore Artistico e Produttore. Come funziona la produzione per un esordiente all’interno di TUK?

Allora, innanzitutto gli artisti arrivano a noi nei modi più disparati. Abbiamo iniziato con progetti che conoscevamo da vicino e sono diventati parte della famiglia. Per gli altri invece riceviamo il materiale e lo vagliamo. Per me oggi esiste un grandissimo problema: ovvero che l’etichetta viene vista solo come un punto di arrivo, non come un punto di partenza. Per il 90% degli artisti che vedo in giro, quando hai il disco in mano è finita lì. È un’idea drammatica. Il disco è un inizio  e non è quello che ti cambierà la vita. Anche perché i dischi si vendono ai concerti o ai release party, dove ti presenti con il prodotto e la gente lo compra perché lo vede e sente l’artista suonarlo. 

Chiunque può riuscire ad avere un ascolto da parte nostra. Ma ora, anche a rischio di ridurre le produzioni, cerchiamo di privilegiare quegli artisti che sentono la necessità di essere anche dei comunicatori, di dare un’immagine a quello che fanno. Oggi a tutti chiediamo almeno un video. Come lo fanno non è importante, ma abbiamo bisogno di un contenuto. Mi rendo conto che oggi un artista ha già molta difficoltà a dover comporre, suonare e chiudere un disco. Ma ci troviamo in una situazione in cui devi essere anche tante altre cose e purtroppo questa skill ce l’hanno sempre meno artisti.

Perché ha funzionato Il disco di Pierpaolo? Perché si è messo in discussione in tutte le direzioni. Quello che ha fatto con l’etichetta è estremamente raro. Oggi il problema non è produrre il disco, perché un disco tutto sommato lo si fa facilmente. Il vero lavoro inizia dopo e questa cosa è molto difficile da spiegare. 

E in questo momento storico, in cui gli artisti hanno molti più canali per la comunicazione, è così difficile trovare chi risponda a questi requisiti?

È difficile trovare un artista in grado di fare tutto e oggi all’artista viene richiesto tantissimo. Devono saper guardare in tante direzioni e noi come Tuk gli chiediamo tutte quelle direzioni. Il disco di Pierpaolo si è notato perché lui ha agito tantissimo: tante idee le ha portate lui, è presente sui social, è una persona che lavora alla sua immagine e questo non significa snaturarsi. Lui non sta vendendo una cosa, sta facendo vedere chi è davvero e oggi serve farlo. Tanti dei ragazzi che arrivano a Tuk hanno un’infinità di stimoli e spesso presentano un disco mentre portano avanti altri otto progetti. I progetti dovrebbero essere portati avanti uno alla volta e bene. Siamo dovuti diventare sempre più selettivi, perché oltre chiedere tanto agli artisti, crediamo che la produzione di un disco o di un progetto siano un percorso da fare insieme.

Poi siamo comunque un’azienda e Paolo alla fine deve far quadrare i conti. Non può essere solo divertimento o mecenatismo fine a sé stesso. Questo non significa che dobbiamo arricchirci dal disco di un ragazzo emergente, ma quantomeno dobbiamo rientrare delle spese perché quel ragazzo si è fatto il mazzo e ha lavorato con noi a quel disco. Questa cosa accade sempre meno ed è un altro dei grandi problemi di questo momento storico.

Credits Roberto Minini-Meròt

Dal 2003 segui inevitabilmente, in qualità di direttore tecnico, anche il Time in Jazz, che non ha bisogno di grandi presentazioni per i nostri lettori. Spesso tra fruitori di vecchia data chiacchieriamo di come la platea del festival sia cambiata radicalmente negli ultimi 20/25 anni. Prima TIJ era un ritrovo per tanti ragazzi, spesso neanche troppo interessati al jazz. Oggi non più. Cosa pensi sia cambiato?

Intanto è verissimo tutto quello che dici. Bisogna guardare la cosa da varie prospettive. Oggi non possiamo più nasconderci dietro al fatto che il paese non ha più i campeggi, già di per sé un grandissimo problema. Ci sono anche altre mancanze strutturali che però non possono essere gestite interamente dal festival. Noi non siamo Umbria Jazz, che si svolge a Perugia, dove c’è di tutto. Ma le strutture lì non le ha create il festival. Le ha create un movimento, una città che ha capito che dal festival si poteva trarre il massimo profitto e una grande resa. Io credo che questa cosa a Berchidda sia successa solo in parte. Per cui spesso si fa confusione nella valutazione di quello che Time in Jazz può fare e di cui è responsabile e quello che invece non può fare perché non ne è responsabile.

Da una parte è vero che è cambiato il pubblico e forse è anche cambiato il rapporto tra i sardi della nostra generazione e il festival. Dall’altra è molto complicato oggi capire che cosa vuole il pubblico e cosa sceglierebbe. Ti faccio un esempio stupido. L’anno scorso abbiamo fatto i Colle der Fomento. Solo con la nostra generazione avremmo dovuto avere cinquemila persone. Perché non sono venute? Perché Berchidda non attira più o perché oggi c’è un sacco di roba in Sardegna ed è più facile andare a Olbia dove il Red Valley è imbattibile sotto ogni profilo, specie nell’ottica dell’appeal.

Credits Paolo Soriani

Colle der fomento e Red Valley non possono catalizzare lo stesso pubblico però. Quale può essere la risposta a questo problema?

Di sicuro la risposta non può essere che Time in Jazz costruisca un albergo o che riapra i campeggi. Ci stiamo anche provando, ma non è facile, anche perché il festival si svolge in un luogo complicato dal punto di vista geografico come Berchidda. Cosa che poi si è rivelata essere anche una delle chiavi del suo successo. Di sicuro da parte nostra abbiamo sempre dato il massimo per portare sia proposte valide che pubblico. Ma sono cambiate tante cose. Il turismo è diventato mordi e fuggi, mentre prima le persone stavano a Berchidda per un sacco di tempo, anche perché c’erano poche alternative. Quello che possiamo offrire oggi è la stessa autenticità di un tempo, cosa su cui abbiamo sempre puntato. Però non può neanche stare solo a noi. Quest’anno siamo andati benissimo, ogni sera c’era un sacco di gente. Forse dovremmo chiederci se queste persone vanno via solo perché non c’è il campeggio oppure vengono per Vinicio, poi l’indomani ripartono perché c’è Ludovico Einaudi, dopo due giorni la Mannoia e via dicendo…

Però c’è anche da dire che vent’anni fa erano tanti i ventenni al festival. E non avevamo certo bisogno di chissà quali strutture ricettive. Oggi i ragazzi di quell’età vanno giustamente in massa al Red Valley e immagino che non sia semplice intercettarli. E anche i trenta-quarantenni vengono molto meno rispetto a prima. Sono cambiate tante cose e non ha senso stare qui a fare troppi confronti. Però il fatto che i ventenni, e anche quelli un po’ meno giovani, non bazzichino uno dei più importanti festival jazz in Sardegna in un periodo in cui il jazz internazionale è stato rinnovato in parte anche da loro, dovrebbe far riflettere.

E noi ci interroghiamo spesso su questa cosa. Hai ragione, quel pubblico ci manca. Già consolidare quarantenni e trentenni nella transizione sarebbe comunque una gran cosa. Per gli adolescenti e i ventenni serve veramente un grande lavoro per capire cosa potrebbe andar bene che sia anche sostenibile economicamente. Perchè, parliamoci chiaro, dobbiamo rispondere a un budget che non è illimitato e non possiamo mettere i biglietti a cifre troppo elevate sperando che il pubblico venga. Se faccio una proposta per i giovani nei giorni in cui possono andare a Olbia, difficile che vengano a Berchidda con numeri sostenibili. Quando abbiamo fatto cose anche solo leggermente azzardate, siamo stati sul filo di lana. Non dimentichiamoci che noi nasciamo come festival jazz. Prendi un Kamasi Washington, che a Bologna può riempire il Locomotiv, dove ci stanno trecento persone. All’interno di un tour italiano ci può stare e le spese si gestiscono. Se dovesse venire in Sardegna, anche facendo quei numeri, che sarebbe già tanto, andremmo comunque sotto, perché portare in Sardegna un musicista come lui a metà agosto costerebbe una barca di soldi. Rischiando comunque di non intercettare i ventenni, perché se sono quelli dei conservatori, quella musica nemmeno la fanno.

Un artista urban internazionale, magari anche raffinato, non lo porta nessuno in Sardegna. All’Arabax hanno portato 50 Cent, ma sarà costato un botto e di sicuro partivano da un’ottima base. Cosa che noi non abbiamo. Noi con la base di partenza buona paghiamo festival e artisti. Per fortuna e purtroppo la nostra missione è principalmente culturale e il lavoro che andrebbe fatto è molto più ampio.

Credits Andrea Rotili

Certo, molto complicato sintetizzare. Quindi, per chiudere, avrei una richiesta tutt’altro che disinteressata. Un ricordo di Gianmaria Testa, di cui sei stato Tour Manager fino al 2016.

Questa è difficilissima. È molto dura per me parlare di questa cosa, è stato un lutto devastante. Gianmaria era proprio come lo vedevi, una persona senza filtri, molto schietta, sincera e genuina. Faceva bellissima musica, molto semplice e la faceva benissimo. Quello che faceva lui lo sapevano fare in pochi. Per me un artista incredibile. Una persona di cui mi pregio di aver condiviso tante cose. Una persona che mi ha fatto amare questo mestiere. Molto spesso guidava lui per non farci stancare durante i tour infiniti di migliaia di chilometri. Aveva una dedizione al lavoro incredibile ed era davvero sempre ispirato. Trovo molte cose di Gianmaria in Paolo, infatti erano grandi amici. Anche Gianmaria arrivava dall’universo contadino, poi ha scoperto il resto del mondo e si è trovato bene. Perché per lui era tutto molto semplice. Non l’ho mai visto arrabbiato, mai visto infastidito da niente. Ha sempre avuto un grandissimo rispetto per la musica, per la famiglia e per tutti noi. Era una persona incredibile. E niente, mi manca. 

Grazie Luca, non serve aggiungere altro. Possiamo chiuderla su queste belle parole. Grazie di cuore

Grazie di tutto anche a voi, davvero.