Il chitarrista cagliaritano si racconta ai microfoni di Cagliari Blues Radio Station per la rubrica Talkin’ Blues
E’ Luglio, siamo in viaggio verso Narcao Blues, per ascoltare il live della Original Blues Brothers Band, io e Enrico Polverari. Partiti da Cagliari poco prima del tramonto, abbiamo preso la SS 130 verso ovest per poi svoltare sulla Pedemontana lasciando di lato il sole, troppo insistente sugli occhi. Affrontiamo le curve immerse nel verde paesaggio collinare dell’interno Sulcis. Questa strada l’abbiamo fatta decine di volte, sempre nello stesso periodo e per lo stesso motivo: il blues. Ci conosciamo da 35 anni, abbiamo iniziato a frequentarci quando ne avevamo 12, intorno alla musica, entrambi studenti di un corso di chitarra classica. Io con lo strumento a sei corde non sono mai andato d’accordo mentre per lui è diventato un mezzo di virtuosa espressione artistica. Quando ho lasciato il corso, dopo qualche mese, le nostre strade si stavano per dividere in maniera netta. Il blues è arrivato in soccorso della nostra giovane amicizia e, da quel momento, abbiamo iniziato assieme una ricerca continua tra dischi, concerti, libri, video, sale prove e appuntamenti intorno alla magia della cosiddetta “musica del diavolo” e la sua storia, i cui motivi umani e sociali sono in larga parte alla base della nostra attuale forte amicizia.
Come sei arrivato alla musica e quindi al blues? Qual è stato il tuo percorso musicale?
Ho sempre ascoltato molta musica grazie a mio fratello che mi passava un po’ di tutto, da Simon & Garfunkel ai Deep Purple, ma soprattutto hard rock. A 12 anni ho iniziato a suonare quasi casualmente la chitarra classica e mi sono appassionato subito allo strumento. Dividevo le mie giornate tra Francisco Tarrega e Ozzy Osbourne sino a quando tra i nostri dischi è arrivato The Blues Brothers, la colonna sonora dell’omonimo film e, per citare i suoi protagonisti John Belushi e Dan Aykroyd, “Ho visto la luce”. Quella è stata la prima scintilla che ha acceso la fiamma del blues in me. Nello stesso periodo su Videomusic passava un videoclip di Eric Clapton che interpretava “After Midnight” di J. J Cale. Innamorato di quella versione, l’ho cercata nei suoi dischi, fino a collezionare, in poco tempo, tutti gli album di “Slowhand”. Quella versione non l’ho mai trovata ma la sua ostinata ricerca mi ha risucchiato dentro il genere. Nello stesso anno a Natale ho ricevuto un doppio regalo: “Texas Flood” e “Soul to Soul” di Stevie Ray Vaughan. Quella notte non sono andato in chiesa, ma ho messo sul piatto il primo disco e il riff devastante di “Scuttle buttin”, è stata la stoccata finale, la fiamma del blues ha scatenato un incendio. E’ iniziato così il mio viaggio fino alle radici del genere. Per moltissimi anni non ho ascoltato e, soprattutto, suonato altro.
Quali musicisti ti hanno maggiormente ispirato e aiutato nel corso degli anni?
Agli inizi della mia trasformazione da chitarrista classico a blues ho provato molta frustrazione, perché si trattava di due linguaggi musicali e due approcci allo strumento totalmente differenti. La mia tecnica classica, all’epoca già molto avanzata, risultava inutile o comunque non produceva alcun risultato significativo. Sino a quando sono incappato in Roberto Ciotti. L’ho visto dal vivo la prima volta a Cagliari al Teatro Alfieri nel 1989 (Cagliari & Blues) fresco del successo ottenuto per aver scritto la colonna sonora di “Marrakech Express” di Gabriele Salvatores. Subito dopo ho seguito il suo metodo didattico su VHS, “Chitarra Rock Blues” che mi ha aiutato a superare le difficoltà iniziali. In seguito mi sono trasferito a Roma e non ho perso uno dei suoi concerti al “Big Mama” di Trastevere dove il sabato era ospite fisso. Se Eric Clapton e Stevie Ray Vaughan sono stati di sicuro i miei primi riferimenti, Roberto Ciotti è quello che poi mi ha preso per mano e accompagnato sulle strade del blues.
Facciamo un salto in avanti nel tempo: in quali progetti sei coinvolto oggi?
Suono con i Chicken Mambo e nel progetto “Il Soffio della Libertà: il blues e i diritti civili” di Fabrizio Poggi. È uno spettacolo di musica e teatro, un viaggio letterario e musicale dai giorni di Selma (Alabama) e della marcia per i diritti civili guidata da Martin Luther King, sino ai giorni nostri. Attraverso canzoni e storie ripercorriamo il cammino del popolo afroamericano, dalla condizione di schiavitù alla libertà. L’iconografia della schiavitù nel sud degli Stati Uniti sembra un lontano passato e di certo oggi non esiste più il mercato all’aperto con la compravendita degli schiavi e le aste, ma le migliaia di migranti che oggi lavorano sotto sfruttamento e senza alcun riconoscimento dei diritti umani, in tutto il mondo, Italia compresa, vivono la stessa situazione. Per queste ragioni il progetto gode di assoluta attualità.
Esiste un legame tra la storia del blues, dei suoi protagonisti e la tua storia?
La storia del blues è lunga e i suoi protagonisti sono molto diversi tra loro, ma se fai riferimento alle sue radici o al periodo della schiavitù direi che la mia storia è molto diversa. Non ho alcun legame dal punto di vista delle condizioni socio-economiche, ma ne ho sicuramente dal punto di vista emotivo ed espressivo. Il blues è medicina e guarigione, è stato il mezzo con cui gli afroamericani hanno tentato di guarire la tristezza della propria condizione esistenziale. Angosce e inquietudini sono emozioni universali e io ho trovato nel blues il mezzo per sublimare le mie, una modalità espressiva vitale.
C’è una canzone o un brano che avresti voluto scrivere?
“I’d rather be blind” di Freddie King è uno dei miei brani preferiti: è struggente ma allo stesso tempo sprigiona una potenza devastante. Come il blues in generale, sofferenza e rinascita.
Qual è il tuo musicista di riferimento?
Non ho esattamente un riferimento, ma dopo 30 anni di ascolti, Muddy Waters è senza dubbio il mio artista preferito.
Tra i tanti palchi calcati, quali vale le pena ricordare?
Ci sono stati molti concerti per me memorabili: con i Mississippi Mood al Pistoia Blues e quando con la stessa formazione abbiamo suonato con Roberto Ciotti; i tour con Bob Margolin; la session nella Blues Cruise con Fabrizio Poggi, Toronzo Cannon e Carl Weathersby. Ma c’è un concerto molto meno “blasonato” che mi ha insegnato moltissimo. Quello con Fabrizio Poggi e i Southern Chicken nel 2017, quando siamo stati invitati al Macchia Blues Festival (Isernia). Il meteo era pessimo e durante l’esibizione di Lino Muoio è scoppiato un temporale che in pochi minuti ha reso il palco impraticabile. Tutti i concerti in cartellone sono stati sospesi. Continuava a piovere a dirotto e, nonostante questo, il pubblico non lasciava la platea. A quel punto gli organizzatori non si sono persi d’animo e hanno allestito un nuovo palco in emergenza sotto il tendone del bar della piazza: la pioggia era incessante, la gente si è stretta intorno a noi e si è creata un’atmosfera pazzesca. Abbiamo suonato nella magia dei juke joint, dove musicisti e pubblico vivono il concerto sullo stesso piano e le nostre emozioni hanno confermato quanto ripete sempre dal palco Poggi: “Nel blues non c’è distinzione tra palco e platea, siamo tutti sotto la stessa veranda in Mississippi“.
Quali sono i migliori concerti che hai visto?
Sicuramente una delle migliori edizioni del Rocce Rosse Blues Festival nel 2001, il cartellone quel 27 luglio metteva assieme Clarence Gatemouth Brown, Keb Mo e John Hammond. Tre stili di blues differenti, tre maestri indiscussi del genere di generazioni diverse. Una serata da incorniciare. Poi il concerto di B. B. King a Roma, Villa Celimontana, nel luglio del 2000. Il live di Jerry Lee Lewis a “Jazz in Sardegna” a Cagliari, era il 2 luglio 1992.
Tra le tante collaborazioni quali sono state le più importanti?
La collaborazione con Bob Margolin è stata di sicuro fonte di grande ispirazione. Per circa sei anni ho organizzato concerti e suonato con lui in tutta Italia. Lavorare al fianco di chi ha suonato tanti anni con Muddy Waters e con una serie infinita dei miei miti giovanili è stata un’esperienza arricchente sia dal punto di vista musicale che umano. Ho toccato con mano quanto sia difficile la vita del musicista blues, soprattutto nel ruolo di “sideman“, dove ti devi destreggiare tra la bellezza e la fatica del mestiere. Permettimi di consigliare sull’argomento due film: “The road to Memphis” di Martin Scorsese e “Sidemen. A long road to glory” di Scott Rosenbaum. Oggi suono con e per Fabrizio Poggi, un maestro di blues, musicista e scrittore, unico italiano ad essere stato candidato ai Grammy Awards (categoria “Best Traditional Blues Album” ndr).
Spesso ci siamo trovati a parlare della comunità dei musicisti blues a Cagliari e in giro per l’Italia, quale giudizio ti sei fatto a livello nazionale dopo tanti anni in giro soprattutto tra Roma e Milano?
Non vedo ancora uno spirito di comunità particolarmente forte. Mi spiace dirlo, ma per quanto esistano tanti esempi virtuosi di associazioni e band, ho notato nel tempo anche molto campanilismo, se non addirittura palese ostracismo. Non stiamo parlando di una leggendaria rivalità artistica come quella tra Little Richard e Jerry Lee Lewis, ma di atteggiamenti da clan che dovrebbero avere poco a che fare con la nostra comunità musicale. Inoltre, vedo sempre troppo pochi musicisti ai concerti dei colleghi e, se forse ciò fa parte dell’evoluzione del popolo del blues e del suo scarso ricambio generazionale, è forte il ricordo degli anni ’90 in cui il ritrovo e lo scambio tra musicisti era molto frequente nei club e nei festival, sia in Sardegna che fuori dall’isola.
Quale disco hai ascoltato di più e ti senti di consigliare?
L’album “Live in Chicago, 1979” di Muddy Waters. L’ho ascoltato talmente tante volte che ora, quando lo metto sul piatto, ho la sensazione di essere davvero sotto il palco.
Quali artisti consigli di ascoltare?
Non ho un’artista particolare da consigliare al momento, oltre tutti i maestri del genere. Rispetto ai nostri tempi, in cui la scoperta di nuovi artisti ha sempre implicato un lungo e anche costoso viaggio nei negozi di dischi, oggi, sul web, abbiamo la possibilità di ascoltare le radio di tutto il mondo, dove passano musicisti pazzeschi. Una scoperta continua. Consiglio, quindi, di ascoltare le radio internazionali e i loro programmi dedicati.
Quali libri consigli ai lettori per conoscere la storia del blues e dei suoi interpreti?
Ne consiglio due: “Il popolo del blues” di Amiri Baraka e “Angeli perduti del Mississippi” di Fabrizio Poggi.
Come immagini il blues del futuro?
Lo immagino così come lo conosco da sempre, cioè basato su due grandi categorie: quello acustico rurale e quello elettrico delle città. Ormai sono morti quasi tutti i protagonisti storici, ma ci sono comunque musicisti che riescono a tenere viva la storia e lo sviluppo dei due generi, dai più esperti Rolling Stones al più giovane Jack White. Entrambi partono dalle radici del blues per produrre gran parte della loro nuova musica e di conseguenza ne rivitalizzano la struttura.
Chi sono i musicisti in Sardegna che si muovono su questa linea e che ti senti comunque di promuovere?
E’ pieno di ottimi musicisti nell’isola e non vorrei fare torto a nessuno, soprattutto ai miei tanti amici di Cagliari, ma più di tutti cito Vittorio Pitzalis, un mio mito personale da sempre, in grado di interpretare in maniera convincente qualsiasi tipo di blues. La sua voce non ha eguali. L’ho amato tanto in versione elettrica, ma devo dire che il suo album “Jimi James” in acustico è un capolavoro. Lui meriterebbe di uscire più spesso dai confini dell’isola. Mi piacciono i King Howl, il loro heavy blues ha un’anima vera e una grande energia. Tra i tanti altri cito decisamente Francesco Piu e, infine, Moses Concas, grandissimi talenti musicali e umani.
Sulle note elettriche di Muddy Waters suonate dall’autoradio finisce il nostro viaggio di ritorno e così anche l’intervista, rimane addosso la sensazione netta che il futuro del blues non è scritto.
Enrico Polverari
Nasce nel 1973 a Cagliari. Inizia a suonare la chitarra classica a 12 anni e a 15 tiene il primo concerto. Dopo la breve carriera classica si innamora perdutamente del blues e nel 1994 è co-fondatore del gruppo No more blue, formazione che prende il nome da un famoso brano di Roberto Ciotti. Trasferitosi a Roma, fonda, con il cantante Francesco Semproni, i Mississippi Mood, a cui si uniscono il bassista cagliaritano Luca Pisanu e Paolo Fabbroncino. In breve tempo la band acquista una forte notorietà nella capitale e partecipa ai più importanti festival della penisola, compreso il Pistoia Blues Festival. Nel 2008 inizia una collaborazione con Bob Margolin, leggendario chitarrista della Muddy Waters band, che li vedrà impegnati in diversi tour in Italia fino al 2014. Nel 2011, dopo un trasferimento a Milano, entra nei Chicken Mambo di Fabrizio Poggi (premio Oscar Hohner Harmonicas, candidato Grammy Awards 2018, due volte candidato ai Blues Music Awards) con cui continua a collaborare su progetti blues musicali e teatrali a forte contenuto sociale.