Her – Gairo

Simone La CroceMusica, Recensioni

Il secondo disco rappresenta sempre un passaggio ostico per qualsiasi band. Ancora di più dopo un buon esordio, quando le aspettative, interne ed esterne, aumentano e reclamano conferme. A più di quattro anni dal primo, omonimo, del 2017, i affrontano la sfida del ritorno con Her, nuovo lavoro pubblicato per – e con – Drown Within Records, Le Officine, Kairos Promotion e, non ultimo, il collettivo Acme, Anonima Cagliaritana Musica Eversiva, cartello che certo non ridimensiona le aspettative.

, Lei, la Terra, campeggia e padroneggia il disco sin dall’artwork creato da Veronica Frau/Kismet Hubble, che vede la modella Blood Valkyrie immortalata con le fattezze della dea madre. Che sia quella di Cuccuru is Arrius o la Venere di Willendorf non fa differenza. La postura, l’espressione del viso e soprattutto il suo sguardo, altero e severo, sembrano lasciar presagire intenti poco benevoli verso noi comuni mortali che ne calpestiamo il suolo lasciando impronte sempre più profonde e poco rispettose. E l’ascolto del disco pare confermarlo.

Tralasciate certe derive math, la cupezza e l’urgenza espressiva degli esordi, la musica dei Gairo perde anche asetticità, in favore di una rabbia diversa, forse più intima e viscerale, che la posiziona più sul versante post-rock che su quello post-metal. Più Russian Circles, MONO, i primi Caspian o, a tratti, gli ultimi Godspeed, che Cult of Luna o Neurosis, ma sempre ben accomodata in canoni consolidati. In Her si sente però una grande attenzione al suono e alla sua distorsione, curati tanto nelle parti di atmosfera, quanto nelle dissonanze noise. Un disco compatto e monolitico, coerente fino alla fine con l’idea di fondo, pur in tutte le sue sfaccettature. Dalla dilatata composizione dell’omonimo brano di apertura, che nei suoi undici minuti sembra voler dare un assaggio del disco tutto, fino all’arpeggio dagli echi celtici che introduce lo spokenword di Summer of 94 e chiude il disco. Nel mezzo, la cavalcata sinfonica di 1808, la potenza di Apogee, l’aria desertica di Koobi Fora, il cantato di Donato Cherchi nell’emblematica Like an Elephant in a Sandstorm,che ne svela definitivamente l’anima blues nello sfogo dal recitatato al falso cordale.

La dualità dei brani – e dell’opera tutta – tipica delle composizioni strumentali del “genere”, in questo caso non si limita alla progressione graduale dal calmo al potente e ritorno, ma al suo apice muta forma ed evolve in qualcosa di più cattivo. Un Mister Hide che all’improvviso si manifesta a ricordare quanto forti possano essere gli schiaffi che solo la realtà sa dare. Spesso a tradimento, mentre tutto è un susseguirsi di buffetti e pacche sulle spalle, altre volte dopo un’infinità di segni premonitori che ci guardiamo bene dall’ascoltare. E la realtà non può che avere lo sguardo livoroso e giudicante di una Dea Madre delusa, ma ancora determinata a riportarci con i piedi sulla terra.