Si chiama Terra il secondo album in studio di Emanuele Pintus, che si è occupato integralmente della scrittura, realizzazione sonore e produzione del disco. Ed è da quel lembo di terra/lingua che fatica a definirsi logudorese o campidanese che il nostro partorisce un lavoro bilingue e una koiné musicale che combina sonorità elettriche ed elettroniche.
Subito colpisce l’opzione linguistica che ci ricorda quanto sia tutto da esplorare il continuum fonetico di fronte a quanti, con la scusa di difendere la ricchezza de sa limba, riducono il tutto a due macrovarianti e ignorano il resto. Così, se in una recensione di un disco si analizzano anche i suoni, cominciamo da quelli articolati vocalmente dal nostro: bocigedda (né boghighedda, né boxixedda); bolari (né bolare, né bolai); gente (né zente, né genti); gerundi in –andu (di fronte alla contrapposizione esclusiva di –ende e –endi) etc. Del resto stiamo parlando di un artista proveniente da Meana, Barbagia de Brebì, zona che ha la stessa dignità linguistica di Bonorva o di Sinnai e che è tutta da scoprire insieme a tutti i centri di quella anfizona messa in secondo piano dai fautori della bipartizione.
Passando ai suoni prodotti dal musicista ecco che abbiamo a che fare, anche qui, con una combinazione: tutto l’album Terra crea un’atmosfera convincente tra vibrazioni elettropop, indie dance rock. Da questo punto di vista, anche qua usiamo l’approccio del continuum e, dopo averlo ascoltato ripetutamente, consigliamo di fare altrettanto sulla fiducia ed evitiamo un’analisi surcu cun surcu (track by track). Ci convince di più soffermarci sul fatto che ogni traccia, al di là di come suona, ci presenta una storia a sé stante, luoghi fantastici, personaggi che ci invitano a immedesimarci in loro, emozioni umane variegate. In definitiva, con Terra, pubblicato lo scorso 23 febbraio per MSound Record, abbiamo a che fare con un bel viaggio linguistico, sonoro e concettuale tra paesaggi e leggende. Aprovadu.