Esistono le passioni, esistono gli hobby ed esistono le attitudini. Spesso si estrinsecano alla stessa maniera e da fuori sono difficili da distinguere. Ma è andando a scavare sulle motivazioni che è possibile coglierne e apprezzarne le differenze. Se in un caso si tratta di semplice otium, nell’altro troviamo quella che può definirsi “urgenza artistica”.
Essa, insinuatasi come un germe nell’individuo, si sviluppa appunto in un’attitudine che si riverbera in ogni ambito comunicativo. Ed ecco che scegliere di imbracciare uno strumento, prendere in mano una macchina fotografica, scegliere quale locale frequentare o decidere di organizzare un evento, pur essendo attività completamente diverse, ridotte ai minimi termini collassano nella medesima singolarità.
Abbiamo incontrato Gabriele Boi, che è stato bassista nei Rippers e nei Mojomatics, chitarrista nei June e nei Bei Tenebrosi di Vanvera, fonico, organizzatore, fotografo, regista, fondatore dello Sleepwalkers Club. Partendo dal suo percorso formativo, sono emersi diversi temi che spaziano dalle esigenze comunicative, all’importanza nodale dei rapporti umani, nei quali si scorge, onnipresente, il germe dell’urgenza.
Palchi, eventi, studio di registrazione, macchine fotografiche, macchine da presa. Avessimo la mania di catalogare saresti un soggetto ostico. Fortunatamente non ci interessa più di tanto mettere dei tag, mentre ci interessano i percorsi. Ci vuoi parlare un po’ del tuo?
Non mi sento affatto un soggetto ostico, anzi trovo che tutti i miei percorsi, o almeno quelli che hanno a che fare con il mondo dell’arte, siano accomunati da uno stesso bisogno.
Durante la mia infanzia, in casa non c’era una grande cultura musicale, avevamo un vecchio stereo a cassette e, a parte De Andrè, gli Abba e il ricordo di mia madre che canticchiava durante le faccende domestiche, posso dire di non aver recepito nessun forte input da parte loro. Nonostante questo mia madre mi propose di prendere lezioni di pianoforte e devo dire che questo non fece altro che accrescere il mio odio per il solfeggio e la teoria musicale (anni fa ho rimpianto di non essermi applicato come avrei dovuto).
A un certo punto però uno strumento in mano lo prendi. Semplice curiosità o c’è stato qualcosa che ha provocato questa pulsione?
Ho iniziato a suonare la chitarra a 12 anni dopo aver visto per la prima volta in tv il video di Smells Like Teen Spirit. Rimasi folgorato da quel tipo di comunicazione e da lì la musica prese il sopravvento su tutto. Band come Sonic Youth, Dinosaur Jr, Fugazi, Pavement sono state la colonna sonora della mia adolescenza.
All’epoca procacciare informazioni su questi generi musicali non era semplice come ora: esistevano poche riviste e qualche fanzine da far spedire direttamente in casa e capitava di stare ore davanti a Videomusic con la speranza di poter registrare un videoclip o uno spezzone di live. Poi ci si scambiavano le poche informazioni e la poca musica recuperata tra i pochi amici nei paesi limitrofi. Avevamo un negozio di dischi di riferimento che era Zimbra Records, dove era possibile sedersi in una vecchia poltrona da barbiere e ascoltare in cuffia i vinili che la maggior parte delle volte non potevamo permetterci di comprare.
Poi forse la Sardegna ti è stata stretta e la curiosità e la voglia di conoscere meglio quel mondo ti hanno spinto a cambiare aria. Bologna se non sbaglio. Cosa ti porti dietro di quella esperienza in quegli anni?
Dopo un primo anno di università a Cagliari, ho deciso di proseguire i miei studi fallimentari a Bologna, scelta dettata più che altro dal numero di concerti che avrei potuto vedere. Durante la mia permanenza bolognese sono entrato a stretto contatto con Tiziano Sgarbi (Bob Corn), i Three Second Kiss, i Red Worms Farm, i Cut, Pier Paolo Capovilla, Manuele Fusaroli (Max Stirner), ho avuto la fortuna di assistere a tanti live impensabili per la Sardegna in quegli anni e tramite Bob Corn siamo stati invitati dagli Shellac all’All Tomorrow’s Parties in Inghilterra.
In quegli stessi anni è nata la mia passione per la fotografia analogica e il cinema indipendente.
Gabriele Boi e Bob Corn – credits Gabriele Boi
E con quel bagaglio di esperienze, ma soprattutto di rapporti umani, sei tornato in Sardegna e hai deciso di vivere la musica a tempo pieno nei suoi molteplici aspetti.
Sì, sono tornato in Sardegna nel 2002. Insieme ad alcuni amici, abbiamo iniziato a organizzare dei concerti così da portare nell’isola tutto quel mondo che avevo conosciuto a Bologna (Lungfish, J Mascis, Karate, Zu, One Dimensional Man, Nina Nastasia e tanta altra roba).
In quello stesso periodo ho iniziato a suonare il basso con i Rippers, un’esperienza tra le più importanti della mia vita che ha fruttato tre 7” e un LP e diversi tour italiani ed Europei.
Contemporaneamente si sentiva l’esigenza di creare un’etichetta discografica per poter dare la possibilità alle band isolane di stampare i dischi e poter fare dei live fuori dall’isola. Con Andrea e Mattia (Pilleri e Mulas, ndr) abbiamo formato un collettivo di persone (per lo più musicisti e amici delle band stesse) e creato Here I Stay Records, rafforzando ancora di più il legame tra l’isola e il continente. Abbiamo iniziato producendo i dischi di GolfClvb, June (di cui facevo parte), Vanvera e Trees of Mint. Registrazioni e mix sono stati affidati a Manuele Fusaroli (Max Stirner) all’NHQ di Ferrara con cui negli anni ho intrapreso un bellissimo rapporto di amicizia. Questo rapporto mi ha dato la possibilità di aprire all’interno dello Sleepwalkers uno studio di registrazione che ha avuto la fortuna di ospitare diverse band, isolane ma anche estere.
Nel 2008 ho suonato il basso con i Mojomatics con i quali ho fatto un lunghissimo tour che mi ha dato la possibilità di suonare in posti come la Norvegia e il Sud Africa e condividere il palco con grandi artisti come Patti Smith.
E da allora a oggi? Hai avuto o hai tuttora progetti in corso o hai abbandonato quella strada?
Da allora ho suonato e registrato dei miei brani collaborando con alcuni amici, ma per ora non ho intenzione di portare avanti nessun progetto musicale. Mi sono dedicato quasi completamente alla fotografia, riprendendo quella mia vecchia passione lasciata in stallo a Bologna. Due anni fa ho terminato un progetto fotografico durato 3 anni che si intitola Demons e parla del bisogno dell’uomo di rifugiarsi in qualcosa (ognuno a suo modo) per evadere e fuggire dalla società, in particolare da quella parte di società austera, ingiusta e capitalista. Spero un giorno di trovare un editore che pubblichi il libro ma per ora non mi sono mosso troppo per trovarne uno.
L’anno scorso ho scritto la sceneggiatura per un cortometraggio intitolato Bruja, girato e montato insieme a Riccardo Muroni. Il film è ispirato alla storia vera di Catalina Lay, vissuta a Seui nel XVI sec. durante il periodo dell’inquisizione Spagnola e condannata ingiustamente per Stregoneria.
Plasma Expander @ Sleepwalkers Club – credits by Nico Massa
Non è raro che diverse velleità artistiche coesistano in una sola persona. Se alcuni sintetizzano frettolosamente con esibizionismo, io penso che il tutto discenda da un’esigenza di dire qualcosa. Senti anche tu questa esigenza che è tale da prescindere il canale di comunicazione?
Abbiamo sempre fatto parte di un micro mondo anticonformista fatto di sottoculture e che si differenzia dalla massa ed esprime in maniera del tutto naturale e incondizionata le proprie idee ed il proprio modo di essere. Tutto ciò non può avere niente a che fare con l’esibizionismo, ma deriva da un forte bisogno di esprimersi. Ognuno di noi trova e sperimenta nel corso della propria esistenza i diversi modi e canali di comunicazione attraverso i quali farlo. Personalmente sono sempre stato molto curioso di imparare e conoscere tante forme di espressione e nell’apprendere mi sono dovuto quindi cimentare in tali forme.
L’esperienza artistica è considerata, nella nostra società, una dimensione separata dalla vita quotidiana o da un percorso standard lavorativo, mentre la parola è l’unica che perdura come forma di espressione. In un’intervista del 1961, William Burroughs considera la “Parola” un virus, cioè “un organismo senza altra funzione interna che quella di replicare se stesso“. L’uomo, per giungere alla piena coscienza, deve rifuggire le “forme verbali”.
Tra le altre cose sei stato il fondatore e animatore dello Sleepwalkers Club, oggetto di una pubblicazione qualche anno fa. Adesso senza farci tentare dall’amarcord, può essere interessante parlare di quella stagione, fatta solo di myspace, sms e tanta fiducia nei rapporti e nel passaparola. Cosa voleva dire allora portare avanti quell’esperienza?
Ho aperto lo Sleepwalkers nel 2006. Abbiamo costruito il locale insieme a mio padre su un pezzo di terra di famiglia nella campagne di Guspini. A detta di tutti poteva essere una grande scommessa: un locale in campagna, in provincia, lontano da tutto. In realtà nonostante i diversi e minori canali di comunicazione penso che allora fosse più facile convogliare determinati tipi di persone affini. Era già presente una bella scena musicale, fatta di bei rapporti tra persone, le band andavano a vedere le altre band, si stampavano ancora i flyer che si distribuivano a mano nei posti strategici frequentati dagli appassionati. Non erano tanti i posti nell’isola dove poter portare avanti un certo tipo di cultura e allo Sleepwalkers abbiamo avuto modo di farlo nel modo giusto, lontani da troppa burocrazia e in un ambiente che da subito si è auto selezionato. I prezzi dei singoli concerti non superava mai i 5 euro, il bar era molto economico ed esisteva una forte tolleranza nel far bere le persone nei parcheggi.
Lo Sleepwalker ha, inoltre, ospitato diversi festival, comprese le prime edizioni dell’HIS Fest e tra le altre cose la location permetteva di dormire in tenda sotto gli ulivi.
Ora la burocrazia e le leggi riguardanti il pubblico spettacolo sono molto più stringenti e stratificate. Organizzare un evento è diventato decisamente più oneroso e complicato in materia di norme sulla sicurezza e diffusione sonora. Ho smesso di organizzare eventi soprattutto per questo motivo, oltre che per il semplice fatto che dopo anni dedicati alla vita notturna ora mi godo il mio letto.
Here I Stay Festival 2009 – Credits Nico Massa
Musicista, mix engineer, gestore, fotografo, regista. Hai potuto osservare l’evoluzione della scena musicale da diversi punti di vista. Cos’hai visto da ognuno di essi?
Da musicista e da tecnico del suono la prima cosa che mi viene in mente è la possibilità che al giorno d’oggi abbiamo di produrre musica. Grazie all’evoluzione della tecnologia digitale, con un pc, una scheda audio, un microfono, software e plug in, chiunque può acquistare e avere in casa un piccolo studio di registrazione.Tutto ciò aumenta il processo di creatività, ma anche il numero di persone che decide di fare un disco senza aver dovuto studiare e approfondire tecniche di microfonaggio o di produzione e senza dover spendere e investire denaro in un vero studio di registrazione.
Potrei fare lo stesso discorso anche per quanto riguarda la fotografia e il cinema e infatti uno dei motivi per cui ho potuto realizzare il film è proprio questo.
Naturalmente tutto questo per quanto mi riguarda ha un limite: la creatività deve appartenere completamente all’individuo e non alla macchina. Tutto quello che sta succedendo per via dell’intelligenza artificiale non porterà a niente di buono, in un mondo sempre più ipocrita in cui anche le professioni artigiane sono sempre più messe a dura prova dall’avvento tecnologico.
E oggi? Quali sono le tue impressioni sul panorama musicale isolano?
Non sono più un assiduo frequentatore di concerti, mi arriva tutto un pò di rimbalzo. Ci sono tantissimi progetti musicali nati negli ultimi anni, alcuni più anacronistici e altri proiettati in un panorama internazionale contemporaneo. Ho notato anche un diffuso approccio verso la sintesi sonora che fino a poco tempo fa interessava per lo più gli addetti ai lavori del panorama della musica elettronica isolana. Tanti musicisti hanno frequentato i corsi di elettroacustica del conservatorio e sono nati nuovi festival con un approccio più sperimentale e contemporaneo. Per fortuna ci sono ancora alcune solide realtà che portano avanti con grande passione gli eventi musicali.
Non mi sento di elencare o recensire i nuovi progetti musicali isolani, la mia opinione ben poco conta e a questo scopo nasce la vostra testata che leggo sempre molto volentieri.
Chi suonava e animava la scena allora continua a farlo ancora oggi, in certi casi in modo più incisivo di vent’anni fa. Probabilmente la ragione la si trova nell’urgenza artistica di cui parlavamo prima che genera un’esigenza comunicativa tale da trascendere l’età. Ci intravedi un bene o un male?
Certo, mi sarebbe piaciuto ci fosse stato un ricambio generazionale più ampio e che più persone delle generazioni successive alla nostra avessero preso posizione e si fossero assunti la responsabilità di portare avanti determinati tipi di attività inerenti alla musica.
Però è anche vero che qualche tempo fa con te, Luca, ci siamo chiesti se potesse piacerci o no una reunion dei Fugazi per nuovi dischi e nuovi concerti: sicuramente non potrebbero mai essere ciò che sono stati vent’anni fa, ma sarei sicuramente molto curioso di vedere in cosa potrebbero evolversi.
Detto questo, per fortuna che chi suonava continua a farlo. Quasi sempre le stesse persone, ma con nuovi progetti, nuovi dischi e nuove idee da portare avanti.
Gabriele Boi – credits Suppetti
La rubrica nasce con l’intento di immaginare ponti tra le varie scene musicali. Secondo te esistono delle strade da percorrere per far sì che diverse scene comunichino tra loro?
Sono convinto che al giorno d’oggi ci sia molta più coesione tra le diverse scene musicali, in maniera molto naturale, anche se non tra tutte. Va però detto che negli anni, sia gli spettatori, che i musicisti, si sono miscelati nei vari ambienti. Alcuni musicisti stessi hanno sperimentato diversi generi musicali e formato progetti che accomunano le varie scene.
E a questo punto ti chiederei se le varie scene sentono una reale esigenza di comunicare tra loro
Secondo me stiamo vivendo un un periodo storico in cui è difficile e desueto etichettare una scena, una band o un collettivo. Questa esigenza si è consolidata negli anni, come ti dicevo prima e tutto è successo in maniera molto naturale e nella maggioranza dei casi – o almeno spero – fuori dalle mode.
Ultima domanda, prima di congedarti: ma è vero che il banco che c’era allo Sleep era dei CSI?Il banco dello studio di registrazione dello Sleepwalkers lo acquistai dall’NHQ di Ferrara. Sì, era un vecchio Tascam che faceva parte della sala B dello studio del C.S.I