“Arrivo, dal tramonto della mia terra e del mio spirito, per trovare saggezza e sollievo per la mia anima dannata”
Che sensazione potrebbe suscitarvi sapere che procurade‘e moderare ha ispirato la musica di una band funeral doom di Cologna, in Germania (Nauthik – Araganu)? La stessa che, con buona probabilità, potrebbe suggestionare il vostro occhio di viandanti fuori sede, riportandovi inconsciamente indietro di due o tre passi a quella locandina di Camden Town in cui il nome “Cogas” campeggia sopra teschi ammucchiati e fisionomie incappucciate. Una band per metà oristanese in una Londra ormai extracomunitaria non può che farci l’effetto di un accento sardo che tradisce la pronuncia in lingua estera. D’altronde, i figli della scena – per noi de La Scena – sono pur sempre fillus de ànima, un’accortezza esattamente all’opposto rispetto a ciò che muove le megere della bassa Sardegna dedite a infestare case di provincia e ritrovatesi, non si sa come, a sgranellare rosari in quel di Londra.
L’immaginario scelto dalla band ci riporta al più tipico dei retaggi storico-culturali che fanno del folklore un facile cliché in musica, ma anche un sigillo di produzioni estreme dai contenuti peculiari e di qualità (Accabadora e Shardana tra tutti).
Con Piero Mura (voce) e Davide Ambu (chitarra) ci ritroviamo al cospetto di un death/black metal solo all’apparenza scarno e minimale (Immortal, Emperor, Dark funeral le influenze più lampanti) con una produzione che si pone in controtendenza rispetto all’attitudine lo-fi del genere, dove tanto più sporca e ovattata è l’esecuzione tanto più diabolico e incorrotto il risultato.
Nella sua prolificazione di sottogeneri e mai facile distinzione con il death (si provino a catalogare i Darkthrone col bilancino), il bagaglio nero da cui la band attinge riesce a non eccedere nel più classico dei mischioni, rimanendo ben radicato in una comfort zone fatta si’ di blasting drumming, tremolo picking e scream, ma dando nel contempo varietà e melodia grazie a un songwriting nel pieno della sua adolescenza più ispirata. Si vedano in questa chiave le parentesi semiacustiche del brano omonimo e di Ettagramma – quest’ultima con testo in italiano – ma anche i fraseggi drammatici di Sulfur.
Due pezzi su tutti per farsi la bocca. A Deceiving Light Through the Mist, nella sua epicità e ostilità estremizzata con lo scream su doppio layer di Piero Mura, esprime più compiutamente la cifra stilistica dei quattro, sintetizzando a livello tecnico e compositivo gli episodi liberati – forse volutamente – al caos dell’incipit. A Dying Sun, subito dopo, pezzo gotico e dalla struttura quasi sinfonica che sembra spogliata dalle tastiere, che cresce in un’apoteosi miserrima ben cesellata da cavalcate epiche, frenate improvvise e dal blasting beat più malefico.
Unconscious Sons of the Reptile God segna un ingresso in scena con personalità e conoscenza della materia per la band sardo-londinese, seppur non si stia cercando di reinventare l’acciaio né di ricavare la ghisa dall‘exemplum scandinavo.
Un ascolto non per tutti i padiglioni acustici, se pescati tra quelli dei nostri più accaniti lettori, ma che unisce nel giudizio complessivo su un’uscita dal peso non trascurabile in anni di calma apparente della scena black, sospesa in un limbo asfittico di band inattive (Simulacro, Accabadora, Gor Morgul & co.) e richiami alla memoria sempre più frequenti.
Per i più vicini al genere i Cogas sono un prodotto incastonato nel trve kvlt per antonomasia, ma con intenzioni e suoni contemporanei e con il cliché folkloristico che si dissolve tra milioni di storie urbane avvolte nel fumo della Londra moderna. Visto da quaggiù, la naturale prosecuzione di un filone narrativo diventato tradizione ma che manca, ormai da alcuni anni, dei suoi attuali protagonisti.