Il bluesman tabarchino si racconta ai microfoni di Cagliari Blues Radio Station per la rubrica Talkin’ Blues
Punta Mangiabarche, in territorio di Calasetta, nell’isola di Sant’Antioco, nel bel mezzo di una mareggiata invernale è lo scenario dove incontro e converso con Matteo Leone. Siamo di fronte a un piccolo faro dal fascino sinistro, come è sinistro il blues. Entrambi sono spesso fortemente legati alle sventure di tanti: marinai, per il primo, musicisti, per il secondo.
Come sei diventato musicista?
La mia passione per la musica nasce in famiglia: molti dei miei parenti, sparsi tra Calasetta e Carloforte, sono stati musicisti. Anche mio padre strimpella la chitarra, suoniamo nello stesso stile “rovesciato”, come Albert King: da mancini, suoniamo la chitarra per destrorsi senza girare le corde. Ho mosso i miei primi passi nella banda del paese come percussionista all’età di 6 anni. Una palestra formativa eccezionale, dove ho avuto a disposizione molti timbri musicali che mi hanno aiutato a diventare un polistrumentista.
La tua musica racconta più il passato, il presente o il futuro?
La mia musica guarda al futuro, parlando di fatti passati.
A chi ti sei ispirato quando hai iniziato a suonare? E oggi chi sono i tuoi riferimenti?
Ho avuto davvero tante fasi musicali nella mia vita. Nella prima ci sono stati Bob Marley, i Doors e i Pantera. Oggi ascolto soprattutto “desert blues”, Tinariwen e Bombino tra i tanti.
Ci racconti il tuo ultimo progetto?
È un progetto solista in cui canto nel mio dialetto, il tabarchino, e suono sulle strutture del blues africano. Una sorta di Tabarka Blues. Sto lavorando a un concept album sulla storia della mia comunità, delle nostre origini e del rapporto con il mare e il viaggio, come scoperta e riscoperta. Quando con i Don Leone siamo stati negli Stati Uniti ho conosciuto le terre dove la cultura afroamericana e il blues hanno avuto origine, i luoghi di deportazione, di duro lavoro e schiavitù, ma anche delle prime produzioni musicali. Quest’esperienza di ricerca mi ha convinto a guardare, con lo stesso interesse, verso le mie origini, attraverso la storia dei miei avi. Non riesco più a scrivere e cantare ciò che non conosco, perché il blues è verità.
Come si sviluppano le tue canzoni?
ll processo inizia dalla musica, un giro di chitarra, di basso o un groove di batteria. Successivamente lavoro sul testo. In passato non ho mai dato troppo valore alle parole.
Di questo mi sono pentito e oggi scrivo sicuramente con maggior cura. Alcune melodie mi arrivano in sogno: c’è chi sogna numeri, io sogno musica.
C’è un brano non tuo che avresti voluto scrivere?
“Fire over the hill” di River of Gennargentu.
Quali concerti da spettatore hanno lasciato un ricordo indelebile nella tua memoria?
Ho visto pochissimi concerti durante la mia giovane vita. Purtroppo fino all’adolescenza ho sofferto di epilessia, ero insofferente alle luci stroboscopiche sempre capaci di scatenare delle crisi. Tra i pochi che ho visto ci sono Fabrizio De Andrè nel tour Anime Salve del 1997 e Bob Dylan nel 2000 a Cagliari. A questi si aggiungono i tanti concerti a cui ho assistito al festival “Ai confini tra Sardegna e jazz” a Sant’Anna Arresi.
Che musica stai ascoltando in questo periodo?
Desert blues e musica africana.
Hai in piedi delle collaborazioni con altri musicisti del panorama sardo o internazionale?
La collaborazione più recente – e direi più proficua – è quella con Farees, grande musicista, incredibile persona nonché produttore del mio ultimo disco di imminente uscita.
Inoltre sto scrivendo un disco con Chiara F, ancora in fase di sviluppo.
Robert Johnson o Muddy Waters?
Domanda maledetta! Forse Muddy Waters. Più diretto, più rozzo. Riesco un minimo a replicarlo. Robert Johnson no, non ci riesco. Non capisco cosa faccia e soprattutto come ci riesca: mi è difficile suonare e capire a fondo la sua musica.
C’è un disco che ti ha cambiato la vita?
Il disco di River of Gennargentu “Taloro“. Mi ha fatto conoscere i suoni del Delta. Sino a quel momento la mia conoscenza del blues iniziava e finiva con BB King. Fui invitato ad aprire il suo concerto al Pitosforo Art Music Bar a Carbonia e ho scoperto il cosiddetto country blues. A lui devo la mia crescita musicale e spirituale.
Cosa consigli ai musicisti più giovani o comunque alle prime armi?
Suonate, non mettete mai paletti intorno ai generi. Soprattutto siate curiosi. Andate alle jam e, se un musicista vi piace, provate a contattarlo per avere pareri e consigli. Quindi ascoltate e, ancora, suonate più che potete.
La musica rappresenta il tuo unico lavoro?
Si, per ora si. Dopo aver fatto una miriade di lavori – come il cuoco o l’ormeggiatore di barche – oggi faccio solo il musicista e sono convinto che quando fai un lavoro che ti piace, in fondo, non lavori un solo giorno della tua vita.
Come vedi il blues nel futuro?
Contaminato e ben ancorato alla tradizione, alle sue origini.
Esiste un legame tra la tua terra e il blues?
C’è una forte connessione tra il blues isolano e quello americano.
La Sardegna è geograficamente vicina all’Africa, dove il genere trova le sue prime radici. Inoltre la nostra isola offre un paesaggio simile a quello delle regioni del sud degli Stati Uniti, tra ampie distese e desolazione. Potrei affermare che lo stato del Mississippi assomiglia a una immensa Sardegna con le piantagioni di cotone.
Qual è il tuo rapporto personale con il blues?
È il genere dove oggi trovo il miglior modo di esprimermi, per quanto preferisca restare libero e non legarmi definitivamente a questo. All’interno dei miei dischi spazio tra molti stili musicali e sono cosciente di cambiare idea molto facilmente. Purtroppo e per fortuna.
Matteo Leone è compositore, chitarrista, batterista, cantante: fa parte del duo Don Leone, vincitore dell’Italian Blues Challenge 2017. Formatosi come musicista jazz e avant-garde, è oggi autore e interprete di un blues radicale e moderno al tempo stesso: nella sua musica risuonano insieme gli echi del Delta del Mississippi e le suggestioni del Mediterraneo, la cultura afroamericana, sarda e tabarchina.
L’incedere della marea e la potenza delle onde che si infrangono sugli scogli sembrano avvertirci di non essere più tanto al sicuro. Andiamo via con la sensazione di avere in qualche modo salvato la pelle e con un blues in più da raccontare, il Blues di Mangiabarche.