Sonala Folk, il live report

Simone La CroceLive report

Fotografie di Alessia Zedde

Sonala è una piccola realtà che da qualche anno prova a rinnovare l’aria del cuore della Barbagia di Ollolai cercando, con delicatezza, di creare nuovi innesti per le musiche ancestrali radicate in questa zona della Sardegna. Lo fa organizzando un piccolo festival, con due appuntamenti, uno estivo, Sonala Fest, e uno invernale, . La prima edizione del 2022 aveva timidamente messo insieme un calendario organico, fatto di laboratori didattici, spettacoli teatrali e live set estremamente vari. Fabio Calzia aveva reso bene il senso delle intenzioni dell’associazione: «guardare il territorio e il paese attraverso le lenti di musiche di vario respiro, mettendo insieme cultura, ambiente e comunità, con il senso di condivisione tipico della festa barbaricina, ma con una programmazione di spirito internazionale». 

Il senso di comunità in quelle lande, che sono insieme centro e periferia, è una faccenda seria, normalizzata e non normata, sulla quale si basa l’esistenza stessa di chi vive quei paesi. E infatti guida la logistica tutta, dalla scelta degli spazi a quella dei paesi e degli attori coinvolti; quindi, indistintamente, attività commerciali, istituzioni, scuole, musicisti, appassionati, associazioni e via dicendo. Le cose si fanno tutti insieme, possibilmente senza lasciar fuori nessuno. Le edizioni successive hanno confermato questo approccio e dove possibile lo hanno rafforzato, portando il festival straordinariamente quasi indenne fino al terzo anno, che nella sua versione estiva ha visto, oltre ai soliti laboratori e agli spettacoli, tra cui una performance di break dance, un cartellone con Bob Forte, Mumucs, , e il concerto del trio di , poi malauguratamente saltato per una serie di sfortunati eventi. È con questi presupposti che si arriva all’edizione invernale, che prevede, come per gli anni passati, due appuntamenti spalmati lungo un weekend e divisi tra i paesi di Lodine e Ovodda, di cui sono originari gli organizzatori del festival, Fabio Calzia e Pierpaolo Vacca, che i lettori di Sa Scena conoscono bene.

“Serrandale” a Lodine – Credits Marta Staffa

Lodine è un paese molto piccolo, una manciata di case affacciate su appena un chilometro di provinciale, che accoglie i propri visitatori con i faccioni in versione pop art di Frida Kalho, Gramsci, Nivola, Bob Marley, Mandela, De Andrè, Enrico Berlinguer e Giovanni Maria Angioy, giusto per fare nomi a caso. Sono i cosiddetti Serrandales, murales realizzati da vent’anni a questa parte sulle serrande dei garage. Siamo a quasi 900 metri di altitudine, l’inverno da queste parti non è particolarmente clemente e per la giornata di apertura del Sonala Folk non fa eccezioni. E se in queste zone non è semplice organizzare degli eventi musicali durante la stagione calda, durante quella invernale lo è ancora meno. 

Elemento dominante e leitmotiv di Sonala Folk è, manco a dirlo, la musica tradizionale sarda, ma quello che unisce le diverse proposte è una vivace apertura verso tutto ciò che tradizionale non necessariamente lo è e che, contrariamente alle apparenze, può comunque conviverci. Nel piccolo Centro Polifunzionale “Giulio Mulas” – il sindaco che ha condotto la battaglia per l’indipendenza dal comune di Gavoi sul finire degli anni ottanta – in rappresentanza della componente più espressamente tradizionale, apre la prima giornata il Coro Gabriel, formazione tempiese a quattro voci, evoluzione del canto a tenore e formazione tipica della Gallura ed emblema del canto a tasgia, accompagnata, per non farsi mancare niente, dalla cétara gallurese di Nino Bianco.

Ma il piatto forte della serata è quello che occupa il palco subito dopo. Il Tenore Murales di Orgosolo e , sono due progetti ampiamente noti al pubblico, ma l’ensemble è inedito. Quindi si presentano, parlando a lungo di rispetto della tradizione, entrambi intendendolo sia come riverenza nei confronti di un sistema di regole e prassi musicali, sia come delicatezza nell’approccio alla sperimentazione. Che sono due concetti diversi. Paolo Angeli lo fa dal punto di vista di chi è cresciuto tra il rigore dello studio e la flessibilità della sperimentazione, Franco Corrias, boche del tenore, lo fa invece dal punto di vista di chi invece sa di stare dentro un inflessibile complesso di norme secolari, frammentato, in maniera estremamente variegata nelle sottili differenze tra le varie modas, corfos, timbriche e fonetiche. Punti di vista apparentemente antitetici che però trovano punti di incontro proprio nello scardinamento delle regole, processo che si rivela, spesso, meno complicato di quanto si possa pensare. Ci aveva già provato lo stesso Paolo Angeli coinvolgendo Omar Bandinu, bassu del Tenore “Mialinu Pira” di Bitti in Sulu, traccia di Jar’A del 2021, ci era riuscito Gavino Murgia con il suo canto gutturale trasposto nel free, e anche, a suo modo, Iosonouncane in DIE. 

Tenore Murales e Paolo Angeli – Credits Alessia Zedde

E ci hanno provato anche i cinque sul palco. Non con esibizioni alternate, ognuna fedele a sé stessa, ma con un’idea precisa di ridiscussione e condivisione dei propri bagagli musicali. Paolo si è improvvisato boche, si è lasciato accompagnare dal tenore e ha guidato i canti con la chitarra. Il coro si è scisso facendo cantare le voci singolarmente, ponendo in risalto le specifiche timbriche gutturali, forse una delle caratteristiche più note del canto, ma che molto di rado escono dal conforto della polifonia. Qualcuno ha scosso la testa in segno di disappunto alle prime dissonanze o ai cambi di tempo che rompevano le rigide metriche del canto. Dissesti che poi riportavano comunque tutto sui binari del consueto, destabilizzando e confortando come a dire che in fondo era sempre tutto lì. E tutti alla fine dell’esibizione si sono sperticati le mani con una lunghissima standing ovation, spinta anche dalle tematiche affrontate: anticapitalismo, antimilitarismo e speculazione, energetica e non solo. Un esperimento quasi del tutto originale e molto più che riuscito, che forse a breve, si spera, troverà spazio su disco.

Paolo Angeli – Credits Alessia Zedde

All’Auditorium Comunale di Ovodda, anche in questo caso gremito, il giorno seguente la formula in qualche modo si ripete. Apre un “estemporaneo” Tenore di Ovodda: i quattro, tutti giovanissimi, non si erano mai esibiti prima con quella formazione e qualcuno nemmeno a cantare in quella posizione, vanno avanti per 15 minuti filati, scorrendo le diverse varianti del canto ovoddese senza una pausa. Incassano applausi scroscianti ed escono in punta di piedi, per lasciare spazio al progetto, anch’esso fortemente tradizionalista basato sul cantu a chiterra, di Daniele Giallara, Franco Figos, entrambi alle voci, e Bruno Maludrottu alla chitarra gallurese. Virtuosismi a non finire e, anche qui, grande acclamazione finale. 

Tenore di Ovodda – Credits Alessia Zedde

Ma anche questa serata covava una grande attrazione, che ancora doveva accomodarsi sulla seggiola posta al centro del palco. Marc Ribot fa così il suo ingresso, timidamente, senza proferire verbo e imbracciando la sua piccola e ampiamente vissuta Gibson degli anni ‘30. Accorda, poggia il piede su una cassa, la guancia sul corpo della chitarra e suona per un’ora, restando quasi ininterrottamente in quella posizione, curvo su sé stesso, quasi senza volgere mai lo sguardo alla tastiera. L’immobilità contagia chiunque nell’auditorium. Il silenzio si rompe nelle poche pause tra un brano e l’altro, tra un’improvvisazione e una pausa per tornare alla realtà. In mezzo lectio brevis di storia della musica americana eseguite da un’antologia vivente con una disinvoltura e una spontaneità rare. Con puntate su country, folk, jazz, dixieland, swing, blues, avanguardia, progressive e forse anche su niente di ciò. Tutto quello che lo ha portato a suonare, in neanche 40 anni di carriera, con Tom Waits, Alison Krauss, Robert Plant, Elvis Costello, John Zorn, Caetano Veloso – ma anche a occupare il podio dei migliori chitarristi al mondo di Scaruffi – è stato fruibile per le duecento persone accorse a Ovodda per sentirlo e guardarlo suonare. Perché in questi casi, osservare dal vivo chitarristi di quel calibro è stupefacente quasi come sentirli suonare. 

Marc Ribot – Credits Alessia Zedde

Chi già lo conosceva è tornato a casa con un bagaglio esperienziale difficilmente ripetibile, chi non lo conosceva affatto ha scoperto un nuovo piccolo mondo, mentre chi era lì per caso o per sbaglio ora sa che con la chitarra si possono fare anche tante altre cose rispetto a quelle note fino a quel momento. Quasi come sentire le voci di un Tenore cantare singolarmente accompagnate da una chitarra suonata con l’archetto o sentire una boche intonare un canto gallurese.

Forse è un po’ questo il bottino che si portano a casa Pierpaolo, Fabio, Giuseppe (gli organizzatori di Sonala), e le tante persone che hanno supportato in ogni modo il festival: l’aver fatto sedere allo stesso tavolo musicisti arditi e ferrei conservatori della tradizione, facendo in modo che qualcosa di quello che avevano da dire permeasse e accendesse barlumi di meraviglia chiunque fosse nei pressi. E dimostrato che certe cose possono ancora essere possibili anche in quegli angoli di Sardegna lontani, geograficamente e sensorialmente, dai luoghi comunemente deputati a quegli azzardi.