Trent’anni fa, il 4 ottobre del 1994, Marcello Melis ci ha reso più soli, orfani di uno dei migliori artisti che la Sardegna abbia conosciuto. La sua importanza nel mondo della musica isolana, nel jazz ma non solo, è indiscutibile e i frutti delle sue intuizioni rimangono dei modelli da seguire e scoprire ancora oggi. Personaggio di un rigore umano e artistico quasi unico, amante del silenzio e del frastuono più atroce, curioso e sempre attento alle dinamiche del cambiamento, pioniere di stili e modi di approcciare la musica che anche a distanza di tempo rimangono paradigmi di come stare al mondo ed essere artista nel migliore dei modi. Se il jazz in Sardegna ha avuto uno sviluppo che ha dell’incredibile lo dobbiamo anche alle sue intuizioni, se oggi è normale che diverse culture entrino in contatto e si abbia uno sguardo aperto e disponibile, anche questo in qualche modo ci arriva dalla sua grande lezione.
I primi passi
Lui era nato nel 1939 in piena bagarre bellica, in un mondo stravolto e fuori misura e in un’isola che ancora cercava di trovare la propria identità nel mondo. I suoi primi approcci alla musica risalgono agli anni Sessanta e i suoi amici di allora sono Alberto Rodriguez (altro angelo volato via troppo presto), Bruno Massidda e quello che arriva alle loro orecchie sono i suoni di un mondo che si avvicina sempre più. Arrivano soprattutto i suoni della nuova America, il jazz e tutto quello che questa musica rappresenta: ritmo, libertà, gioia e anche un deciso retrogusto politico. In questi anni Melis frequenta anche il Conservatorio ma si rende subito conto che quel modo di vivere la musica non è il suo: troppe gabbie, troppi limiti, regole ferree che non si possono mettere in discussione. Troppo per il giovane Marcello, che capisce che oltre cortina ci sono altre forme di vita, nuovi orizzonti da prendere in considerazione. Si laurea in Scienze Politiche a Cagliari e riesce a farsi assumere all’Istituto per il Commercio Estero, un lavoro che gli apre le porte del mondo e lo proietta fuori da un’isola che gli è diventata troppo stretta.

Roma. Folkstudio, Gruppo Romano Free Jazz e Modern Art Trio.
Roma sarà la sua prima destinazione, un luogo di formazione, uno scrigno di esperienze molto forti. Frequenta gli ambienti della Roma alternativa ed è spesso di casa al Folkstudio che in quel periodo era un vero paradiso per chi aveva bisogno di scosse ed emozioni. Nasce in questo spazio la collaborazione con il Gruppo Romano Free Jazz, una creatura selvaggia e molto rumorosa che faceva capo a Mario Schiano e Giancarlo Schiaffini, uno dei primi gruppi italiani a imbracciare l’impervia strada del free jazz. Concerti sempre al limite delle proprie possibilità, libertà creativa senza alcun limite come testimoniano alcuni reperti discografici a testimonianza di quei giorni non proprio facili e disinvolti. Melis collabora anche per un breve periodo con il Modern Art Trio di Franco D’Andrea che aveva un approccio al jazz molto vicino alle sperimentazioni dell’avanguardia del Novecento, anche in questo caso oltre ogni possibile catalogazione.
1968 – 1972. Incontro con Enrico Rava, Mario Schiano e le colonne sonore per diversi registi, tra cui Pasolini.
Nel 1968 inizia la grande amicizia con Enrico Rava che durerà fino alla fine dei suoi giorni e grazie a lui conosce Steve Lacy e tutti i migliori musicisti che arrivavano in Italia, tra cui Gato Barbieri e il suo mondo tutto da scoprire che non prevede limiti geografici. Sono di questi anni alcune incursioni in territori extra musicali ma pur sempre affini. Nel 1969 con Mario Schiano e Marco Cristofolini compone la colonna sonora di Apollon, una fabbrica occupata, un docufilm di Ugo Gregoretti che racconta un momento di lotta operaia e la cui visione è possibile grazie a un recente restauro della Cineteca di Bologna. Stesso anno e ancora una colonna sonora, questa volta per Appunti di un’Orestiade africana diretto da Pier Paolo Pasolini. Per l’occasione Melis suona in compagnia di Gato Barbieri e Don Moye in una sorta di improvvisazione in tempo reale, molto free, molto legata alle storie di quegli anni nei quali era normale che la musica contenesse anche un preciso segnale politico. La sua visione è possibile al link. Nel 1972 continua la proficua collaborazione con Mario Schiano che lo coinvolge nel suo album Sud che contiene due sue lunghe composizioni nelle quali per la prima volta appare la Sardegna in un azzardato recupero di suoni e fascinazioni isolane. Una svolta che verrà portata alle estreme conseguenze negli anni successivi.

1973 – 1983: la svolta newyorkese e l’impatto sulla scena sarda.
Il 1973 per Marcello Melis è un anno cruciale in quanto viene trasferito a New York nei locali Uffici dell’ICE, destinazione fortemente agognata per motivi che possiamo ben immaginare. New York è la città dove tutto accade, luogo mitico e fondativo, un mondo a sé che include tutte le sfumature dell’arte contemporanea e la musica in particolare viene trattata come in nessun’altra parte al mondo. Qui Melis ritrova il suo pard Enrico Rava, altri italiani in fuga dal proprio destino e una scena jazz che non ha eguali. Nel decennio americano (più o meno dal 1973 al 1983) Marcello Melis sviluppa in modo compiuto e definitivo la sua visione della musica, sforna dischi meravigliosi, capisce che il mondo è vasto e spaventoso e allo stesso tempo interconnesso e legato da infiniti rimandi. Si tratta solo di districare queste tessiture e fornire una propria visione, cosa che avviene nei quattro dischi pubblicati in questi anni: Perdas de Fogu del 1974, The New Village On The Left… e Bars del 1977, Free To Dance del 1978. Un corpus sonoro di immenso valore che apre strade mai praticate prima, nemmeno immaginate e ipotizzate. Per la prima volta la Sardegna siede al tavolo di un mondo nuovo, la sua musica e la sua cultura si confrontano con altri linguaggi, le storie si intrecciano e tutto diventa più disponibile e inclusivo. Il canto a tenore non appare così lontano dalle improvvisazioni del free jazz e non si avverte nessuna forzatura, niente viene sacrificato in queste tracce, ogni sistema di valori ha la sua forza e dignità ed è sempre presente il rispetto per pratiche che arrivano dalla notte dei tempi così come di quelle più contemporanee. Dopo questi dischi la Sardegna appare diversa e pronta ad affrontare le sfide del mondo globale e da qui in avanti sarà un susseguirsi di esperienze, di sperimentazioni, di sfide e anche di sconfitte. Ma il punto di partenza rimane quello indicato da Marcello Melis per un cammino ancora lungo da percorrere.
Il ritorno in Sardegna e gli ultimi anni in giro per l’Europa.
Nel 1983 Melis torna in Sardegna, partecipa al festival Jazz in Sardegna e presenta un nuovo lavoro che ha un titolo emblematico Angedras, ovvero una Sardegna vista al contrario, capovolta e messa in discussione ancora una volta. E anche qui la parola d’ordine è rimodulare i termini della storia, creare una nuova estetica di partecipazione, capire e scoprire dove si nascondono i fantasmi della creazione. Da qui in avanti ancora viaggi, nuove scoperte, continui ritorni nell’isola che rimane sempre la sua Itaca e un disco nuovo nel 1991, The Uncaged, sempre rivolto verso quelle zone grigie dell’improvvisazione radicale che continuano ad affascinarlo e sedurlo. Poi un soggiorno a Kiev ai tempi di Chernobyl e un problema di salute che lo accompagnerà fino alla fine nel 1994. Una fine per fortuna solo terrena in quanto la sua musica è la voce del suo contrabbasso scolpito nel basalto rimangono come esempio di coraggio e libertà: un patrimonio da custodire e una manciata di album da ascoltare con la massima concentrazione.