Da cosa guadagnano le piattaforme digitali di musica on-demand? Ce lo siamo chiesti tutti, almeno una volta nella vita: sponsor, royalties, abbonamenti, e altre risposte che sono affiorate più nitide, man mano che la diffusione in streaming è diventata il principale supporto per l’ascolto di musica a livello mondiale.
Secondo dati FIMI, lo streaming è arrivato, in Italia, a ricoprire il 63% del valore del mercato discografico, dando linfa a un comparto che fino a qualche anno prima sembrava destinato a soccombere per mano della peer-to-peer economy.
Si arriva, di conseguenza, all’ultima, scomoda ma obbligatoria, domanda: quanto guadagnano gli artisti presenti su Spotify?
Secondo un’indagine condotta dal governo inglese, l’82% degli artisti locali riesce a guadagnare dalle piattaforme streaming solo 200 sterline all’anno (circa 230 euro). Ci era andato vicino Geoff Barrow dei Portishead, che nel 2017 anticipò il sondaggio con un tweet che recitava “Ok, una domanda veloce per i musicisti. Quanti di voi hanno incassato più di 500 sterline da Spotify?”. Un bilancio impietoso, se si aggiunge che Il 90% del profitto distribuito da Spotify va a 43.000 artisti soltanto – su quasi 4 milioni, secondo i dati distribuiti dalla stessa compagnia – e che, da tutti gli incassi, la piattaforma retrocede alle etichette discografiche (e dunque agli artisti) appena il 70% dei profitti. Poco, o ancora troppo poco, secondo chi guarda agli interessi di una pletora di artisti presentI sulla piattaforma e che si muove nell’ordine delle centinaia di migliaia di streaming. Un risultato di tutto rispetto, ma che in “soldoni” non sembra soddisfare l’esigenza di cantanti e band che sognano di vivere di musica o, più umilmente, di pagarsi l’affitto, soprattutto considerando la lunga filiera della produzione musicale che, ancor prima di arrivare all’artista, si trova a staccare dividendi a case discografiche, promoter, agenti.
Da queste premesse si è aperto, negli USA, un fronte comune di protesta in difesa dei diritti degli artisti, anticipato dalle istanze di band che, ironicamente, hanno iniziato a condividere sui social informazioni sui miseri accrediti bancari periodicamente ricevuti dalle piattaforme digitali, ben sostenuti dall’endorsement di artisti più visibili – celebre il post di Thom Yorke, uno dei principali detrattori del modello Spotify, «Non fatevi ingannare, i nuovi artisti che scoprite su Spotify non vengono pagati e senza nuove canzoni lo stesso servizio non sopravviverà».
Il punto di incontro sembra essere la definizione di regole eque e user-centric per la remunerazione degli artisti e la distribuzione della musica on-demand. In questa direzione viaggia “Justice at Spotify“, l’iniziativa organizzata da UMAW (Union of Musicians and Allied Workers), un’associazione fondata da artisti americani e addetti ai lavori, per promuovere la riforma del sistema del pro-rata e muovere la remunerazione minima per singolo streaming a 1 centesimo dagli attuali pochi millesimi. L’iniziativa sarà accompagnata da una protesta in presenza fisica, prevista il 15 Marzo 2021, davanti alle sedi di Spotify in quattro continenti (America, Asia, Europa, Australia) e in trentadue città, compresa Milano.
Non solo, quindi, la prima protesta attiva sul tema organizzata a livello mondiale dal basso – tralasciando la prima in ordine cronologico, mossa da Lars Ulrich a Napster e rappresentativa, per inverso, delle istanze dell’elite discografica –, ma soprattutto un’iniziativa che guarda concretamente alla democratizzazione dei diritti degli artisti in un momento storico in cui l’assenza della musica dal vivo (principale introito per le band) ha dimostrato quanto sia poco sostenibile l’attuale modello di produzione musicale.