È tutta scena! – Simone Cavagnino

Claudio LoiÈ tutta scena!, Interviste

Abbiamo intercettato Simone Cavagnino, giornalista, autore, conduttore televisivo e radiofonico e tante altre cose e ne abbiamo approfittato per ragionare con lui della realtà musicale isolana e di tutte quelle cose che servono per far funzionare una macchina complessa come quella degli eventi culturali. 

Partiamo dall’inizio della tua carriera che, se non sbaglio, è legata all’attività radiofonica, che tu hai seguito nei diversi aspetti della faccenda: speaker, conduttore, ideatore di trasmissioni, gestione del mezzo e così via. 

In realtà mi sono avvicinato al giornalismo appena diciottenne, scrivendo per un giornale sportivo, prima di dedicarmi agli studi in Giurisprudenza. Ho iniziato presto a lavorare nella Compucart, l’azienda di mio padre, dove ho approfondito competenze in cartografia, grafica e cultura del lavoro. L’incontro con Antonello Cau, editore di Infochannel TV Sardinia, è stato decisivo: da lui ho imparato moltissimo. In seguito ho approfondito il giornalismo musicale con Luciano Vanni e poco dopo è arrivata Unica Radio, un laboratorio fervido e creativo fondato da Carlo Pahler dove ho potuto crescere, sperimentare e imparare a raccontare con la voce e con il mio inseparabile microfono. Ne sono poi diventato direttore, ruolo che ho ricoperto per ben dieci anni, vivendo una straordinaria esperienza di formazione, confronto e crescita collettiva. Poi l’incontro con Pinuccio Sciola, da cui ho ricevuto fiducia e consapevolezza, e con veri “angeli custodi” come il musicologo Mario Evangelista e la speaker Rita Leone, figure fondamentali in un periodo di intenso studio e costruzione professionale.

Intervista a Pinuccio Sciola – credits Massimo Congiu

La radio rimane ancora un incredibile strumento di comunicazione nonostante i profondi cambiamenti di questi anni.

Se ci pensi, la radio, più di ogni altro mezzo, ha saputo resistere e adattarsi ai cambiamenti, restando insieme antica e modernissima. Con il digitale e i podcast ha trovato nuove forme di espressione, diventando protagonista anche nell’era delle piattaforme e degli smartphone. Per me fare radio e podcast significa abitare la parola, creare connessioni tra voci e persone, portare questo linguaggio nei festival e nei nuovi ecosistemi digitali, tra audio e video, con la libertà che solo la radio sa offrire. Significa anche portarla nelle scuole, come nel laboratorio Affettivamente condotto con Franca Rita Porcu all’Istituto De Sanctis-Deledda di Cagliari: un progetto di educazione affettiva e comunicazione che ha permesso agli studenti di riflettere su emozioni, rispetto e relazioni, imparando a raccontarsi e ad ascoltare.

L’esperienza radiofonica ti ha sicuramente forgiato anche nella tua attività seriale di intervistatore. Per me sei sempre stato ‘l’uomo con il registratore a tracolla’, quasi un novello Alan Lomax alla ricerca delle memorie perdute della musica, delle storie dei musicisti, della loro vita.

Ho sempre creduto, e credo sempre di più, che l’intervista sia il luogo ideale in cui intervistato e intervistatore possono incontrarsi davvero, trovando quella dimensione giusta in cui il dialogo diventa scambio, scoperta e crescita reciproca. Certo, serve una predisposizione caratteriale, ma non basta: per fare un’intervista bisogna studiare tanto, verificare le fonti, preparare con cura le domande e documentarsi a fondo su ogni aspetto legato all’interlocutore che si andrà a incontrare. Non bisogna mai sentirsi troppo sicuri: ogni intervista richiede attenzione, rispetto e una preparazione accurata. È un costante gioco di equilibri, in cui la differenza la fa la capacità di ascoltare, di cogliere le chiavi del discorso, di improvvisare quando serve e di capire quando è necessario deviare dal percorso preparato. È una dimensione nella quale si rincorre costantemente la risposta giusta, la notizia, ma anche quel momento di verità umana che può nascere solo dal rispetto e dall’ascolto autentico. 

Nel tempo ho avuto la fortuna di intervistare tanti artisti, musicisti, attori, fotografi, politici, giornalisti, sportivi e operatori culturali: esperienze che mi hanno permesso di acquisire padronanza e dimestichezza con lo strumento dell’intervista. E ti confido che, tuttora, nel mio zaino c’è sempre l’intramontabile Zoom H1, pronto ad essere acceso in qualsiasi momento.

Intervista a Enrico Rava, Time in Jazz – credits Simone Cavagnino

Poi hai cominciato a far parte del mondo della musica con un mestiere che usiamo chiamare ‘Ufficio Stampa’ che detto così sembra una cosa molto semplice ma solo in apparenza.

Anche questo è un aspetto del giornalismo che trovo estremamente interessante. Ho avuto la fortuna di imparare fin dall’inizio da un grande maestro: Riccardo Sgualdini. Un professionista vero, un amico che senza mezzi termini mi ha insegnato cosa significhi davvero intraprendere questa professione, tutt’altro che semplice.

Il lavoro dell’ufficio stampa, infatti, non si limita alla scrittura dei comunicati: è un’attività complessa, che richiede studio approfondito, verifica costante delle informazioni, capacità di sintesi e analisi, oltre alla competenza necessaria per redigere relazioni, rassegne stampa e materiali di approfondimento. È un mestiere che vive di tempi precisi e sensibilità relazionali, perché comporta la gestione quotidiana dei rapporti con giornalisti, redazioni, enti e istituzioni, e impone equilibrio, chiarezza e affidabilità in ogni passaggio comunicativo. Serve pazienza, metodo e tantissima costanza, ma anche prontezza, lucidità e una buona dose di empatia: qualità indispensabili per interpretare al meglio le esigenze di chi organizza un evento e di chi lo racconta, costruendo così un ponte di fiducia tra chi produce cultura e chi la diffonde.

In questo percorso è stata fondamentale anche la collaborazione con il collega e amico Vito Biolchini, che mi ha insegnato moltissimo soprattutto nella gestione dei momenti di crisi, aiutandomi a sviluppare lucidità e misura anche nelle situazioni più complesse. E non meno importante è stato il confronto con il collega e amico Celestino Moro, grazie al quale ho imparato a riflettere più a fondo sulle dinamiche e sulle opportunità – o meno – di determinati atteggiamenti professionali. Poi una figura sempre presente e pronta a darmi consigli è l’amica e collega Francesca Figus, che trova sempre il tempo per un caffè e un prezioso confronto.

Intervista a Richard Galliano, Time in Jazz – credits Maria Teresa Pirastu

Questo tipo di impegno ti ha portato a entrare in contatto con la maggior parte dei festival musicali isolani con un coinvolgimento che va oltre l’aspetto materiale.

Lavorare in tanti festival, rassegne ed eventi dentro e attorno all’isola mi permette ogni volta di confrontarmi con realtà differenti e di contestualizzare in profondità la dimensione lavorativa. È un’esperienza che consente di cogliere non solo gli aspetti organizzativi, ma anche quelli culturali, sociali e umani dei luoghi in cui si opera. Ogni contesto racconta un modo diverso di intendere e di vivere la cultura.

Penso, per esempio, a Time in Jazz: un festival solido e rodato, massima espressione di un progetto che oggi abbraccia musica, letteratura, cinema, arti visive e natura, senza mai perdere la dimensione della festa paesana e del concerto di altissimo livello, rispecchia tutto ciò che Paolo Fresu rappresenta nel mondo. È un festival che non si ferma mai, animato da professionisti di altissimo livello, che vive tutto l’anno e che, tra agosto e settembre, sboccia come le rose a maggio. Ma, come le rose, esiste anche d’inverno, custodendo nel silenzio la sua energia creativa. Berchidda è una realtà affascinante sotto molti punti di vista – economici, sociali, culturali, antropologici – e lavorarci permette di comprendere quanto la cultura possa radicarsi nel territorio e diventarne parte viva. Ora, con il Centro di Produzione Insulae Lab, il festival guarda al mondo con rinnovata attenzione, professionalità e cura. E poi, per uno come me che da adolescente ascoltava Fresu, poter lavorare con lui significa imparare da un professionista enorme: disciplina, classe, capacità di organizzazione, gestione degli impegni, qualità costante, mai una lamentela. 

Collaboro anche con festival molto strutturati come Dromos, diretto da Salvatore Corona, con cui ho spesso la possibilità di confrontarmi e condividere un lato umano e professionale straordinario; con Narcao Blues, insieme a Gianni Melis e al giovane ma già preparatissimo Francesco Musa; con Rocce Rosse Blues, guidato da Tito Loi; e con altre realtà isolane che si occupano di musica e cultura a 360 gradi.

Lo stesso vale per San Teodoro Jazz, che sotto la direzione di Matteo Pastorino è riuscito, in dieci anni, a conquistare una comunità e una fascia turistica esigente, costruendo un’identità musicale forte, raffinata e riconoscibile. O per Pedras et Sonus, il festival ideato da Zoe Pia nell’Oristanese, che cresce di anno in anno come un laboratorio di suoni e idee in dialogo costante con il paesaggio e la tradizione.

A Time in Jazz con Paolo Fresu – credits Time in Jazz

Inoltre hai lavorato anche in ambiti diversi dai festival e in situazioni extra musicali.

Certo, non solo festival. In passato ho collaborato con il Teatro Lirico di Cagliari, il Teatro Massimo, Alkestis e Fondazione Siotto. E da otto anni lavoro con Jacopo Cullin, un artista da cui ho imparato molto, soprattutto in termini di disciplina e professionalità.

Per un periodo, ho curato anche l’ufficio stampa e i social del Conservatorio di Musica Pierluigi da Palestrina di Cagliari: un’esperienza estremamente formativa, che mi ha permesso di acquisire competenze diverse da tutte le precedenti.

Un altro aspetto interessante della tua attività è quello della partecipazione attiva agli eventi. Mi riferisco a cose come fare il presentatore, il cerimoniere, alle interviste in diretta sui palchi, conferenze e didattica.

La prima volta che sono salito su un palco è stata grazie a Michele Palmas, che mi ha spronato e incoraggiato con grande generosità. Ricordo perfettamente quel momento: eravamo all’FBI, durante un concerto di Alberto Sanna e Fry Moneti, e fui letteralmente spinto a presentarlo, a sedermi per la prima volta davanti a un pubblico, vincendo timidezza e imbarazzo. Da allora, con il passare degli anni, la tv prima e la radio successivamente hanno contribuito enormemente alla mia crescita, aiutandomi a perfezionare la capacità di parlare in pubblico e a gestire le emozioni. Non ricordo più quante volte abbia presentato o moderato eventi, ma ogni volta affronto la preparazione con la stessa attenzione e lo stesso rigore professionale, cercando di adattare il mio approccio alle esigenze e alle atmosfere di ogni contesto.

Grazie alla società Synesis, diretta da due straordinarie professioniste come Monica Santoro e Irene Sotgiu, ho avuto modo di ampliare la mia esperienza e la mia formazione nel settore culturale. Proprio nelle Scuole Civiche tengo da alcuni anni il corso Easy Jazz, ideato insieme al musicista e operatore culturale Francesco Pilia, altro professionista e amico molto importante nel mio percorso: un progetto pensato per raccontare la storia e l’evoluzione del jazz, spiegandola agli studenti di diverse età che si avvicinano per la prima volta a questo linguaggio musicale.

Sul palco di Dromos – credits Francesco De Faveri

Inoltre non voglio dimenticare la tua attività come giornalista e scrittore. Hai collaborato con diverse testate locali e nazionali, spesso ti occupi di stilare testi e presentazioni, hai anche scritto (insieme al sottoscritto) un volume dedicato ai rapporti tra musica e ambiente sociale.

Considero decisivo l’incontro con te e il lavoro che abbiamo svolto insieme nella scrittura di Sardegna, Jazz e dintorni, pubblicato da Aipsa Edizioni nel 2018. È stata un’esperienza intensa e appassionante, un lavoro imponente che ha lasciato una traccia importante nella storia musicale dell’isola, raccontando in profondità il rapporto tra la musica e l’insularità. Quell’opera ha rappresentato per me una vera svolta, aprendo la strada ad altre collaborazioni significative e, ognuna a suo modo, preziose.

Non posso poi dimenticare un altro incontro fondamentale, avvenuto nel 2020, con Sandro Usai, esperto di comunicazione istituzionale, che mi ha letteralmente aperto un mondo fino ad allora sconosciuto. Grazie ai tanti lavori realizzati insieme, ho imparato ad allenare la penna, lo sguardo e la sensibilità verso il mondo della disabilità, affinando la mia capacità di raccontare e comprendere le persone e le loro storie con rispetto, attenzione e profondità.

Nel 2014 ho avuto la fortuna di essere scelto da Pinuccio Sciola per dirigere il suo documentario La memoria del suono, da lui prodotto. È stato un percorso davvero affascinante, durante il quale ho imparato moltissimo su come gestire, focalizzare e far emergere la vita e l’arte di uno scultore e artista del suo calibro. Anche in quel caso non sono mancati gli scontri, talvolta accesi – Pinuccio era un uomo vero, ruvido e allo stesso tempo dolcissimo, sincero – ma riuscivamo sempre a riabbracciarci poco dopo, cementando ogni volta di più la nostra amicizia e la nostra collaborazione.

Il mondo della musica negli ultimi anni ha registrato cambiamenti epocali. Il passaggio da una cultura analogica e tattile a una realtà fluida e immateriale come quella attuale ha sicuramente inciso nella tua attività legata alla comunicazione degli eventi.

È vero: ci siamo trovati totalmente travolti dalla quarta rivoluzione industriale. Ricordo che nel 2010, quando realizzavamo i podcast su Unica Radio in modo già estremamente professionale, nessuno aveva ancora piena consapevolezza di quanto sarebbero diventati importanti. All’epoca pochi disponevano di connessioni stabili, nessuno aveva contratti con giga illimitati e tutto era ancora molto costoso. Più di un professionista ci disse che stavamo investendo tempo ed energie in un settore che non ci avrebbe mai dato risultati.

E invece l’evoluzione ci ha premiati: ci siamo ritrovati a conoscere e padroneggiare un linguaggio nuovo, che per molti era – e in parte resta – ancora inesplorato. Ricordo che già nel 2016 mi occupavo di dirette e podcast video sui social, un’esperienza pionieristica che oggi è diventata la normalità.

Oggi, però, il panorama è completamente cambiato. L’offerta è enorme, quasi eccessiva, e orientarsi non è semplice. Anche per questo il lavoro dell’ufficio stampa, e più in generale quello del giornalista, è mutato radicalmente. Bisogna saper fare tutto: scrivere e saper contestualizzare la scrittura, montare audio e video, conoscere i software e gli strumenti digitali, utilizzare con consapevolezza i social media — sia in ambito privato che professionale —, muoversi con naturalezza davanti a una telecamera o in diretta radio, comprendere i media e le loro logiche, saper gestire un palcoscenico e, soprattutto, improvvisare per affrontare qualsiasi imprevisto.

Intervista a Neri Marcorè, Time in Jazz – credits Alice Franchi

Inoltre, in tutti questi anni avrai potuto verificare i tanti cambiamenti legati ai naturali passaggi di tempo. Soprattutto nel jazz, una delle tue grandi passioni, mi sembra di avvertire una sorta di rallentamento nelle produzioni, nel numero di musicisti, in tante cose.

Credo sia naturale che il mondo della musica, nella sua interezza, stia attraversando una fase di flessione rispetto alla velocità e all’agonismo artistico del passato. È cambiato il mondo, è cambiata la socialità, sono cambiate le occasioni di scambio e di confronto. La rivoluzione tecnologica di cui parlavo prima ha certamente contribuito a un maggiore isolamento dell’individuo e dell’artista, trasformando radicalmente il modo di produrre, condividere e fruire la musica.

I dischi ormai raramente escono in formato fisico, e produrre un vinile è diventato quasi un lusso. Forse questa apparente “smaterializzazione” del suono ha impoverito le nostre librerie e le collezioni di dischi, ma non lo spirito: la musica continua a esistere, a evolversi, a cercare nuove vie per sopravvivere.

In Sardegna, in particolare, continuano a emergere esempi straordinari. Penso a Daniela Pes, che abbiamo sempre conosciuto e di cui non abbiamo mai dubitato del talento. Ma penso anche ai Freak Motel, ai Don Leone, a Matteo Pastorino, Zoe Pia, Andrea Schirru. A Seui è nata la Seuinstreet Band, grazie a un lavoro enorme di gruppo attualmente condotto da Adriano Sarais.

Poi c’è Ilaria Porceddu, che ha scelto di tornare a Cagliari e che, insieme a Emanuele Contis, sta portando avanti un lavoro eccezionale: una vera e propria factory capace di attirare e far germogliare talenti interessanti e coraggiosi.

Per non parlare di Berchidda, dove sono letteralmente sbocciati talenti come Nanni Gaias e Giuseppe Spanu, e di tutta la scena del nord Sardegna, davvero vivace, con realtà come la Disorchestra, Pier Piras, Forelock e tantissimi altri.

Non perdiamo di vista, inoltre, il grande lavoro dell’associazione TiConZero, diretta da Daniele Ledda, nel campo della musica elettronica e della sperimentazione, e quello di Spaziomusica, oggi guidata da Sandro Mungianu, che sta portando avanti una visione rinnovata e profondamente inclusiva.

Oltre al settore legato alla musica da qualche tempo sei impegnato anche in rassegne orientate verso altre forme di divulgazione culturale: teatro, poesia, festival letterari, manifestazioni di carattere sociale. 

Ho anticipato in precedenza la mia collaborazione con altri mondi oltre a quello musicale. Mondi apparentemente differenti, ma capaci di intersecarsi e arricchirsi a vicenda. I festival letterari, in particolare, rappresentano una parte fondamentale del panorama culturale dell’isola. 

Collaboro con Mattea Lissia e la sua squadra in Pazza Idea, un festival che considero un’assoluta eccellenza nel panorama nazionale. Lavoro anche con Riverrun – Centro di ideazione e progettazione culturale diretto da Lorenzo Mori, con Sardarch, con il Premio Emilio Lussu, con il poeta Andrea Melis e il suo Circo Letterario e in passato ho collaborato con i festival LEI, Leggendo Metropolitano, con Le Ragazze Terribili e con la compagnia Lucidosottile.

Da ciascuno di loro ho imparato moltissimo, non solo dal punto di vista professionale e organizzativo, ma anche e soprattutto umano. Ogni esperienza, ogni confronto, ogni festival è un laboratorio di relazioni e competenze che mi ha permesso di ampliare lo sguardo e di continuare a evolvermi come giornalista e come persona.

Intervista a Stefano Bollani, Time in Jazz – credits Simone Cavagnino

Ultima domanda e poi ti lascio. Se una persona giovane ti chiedesse dei consigli per iniziare questa professione (ufficio stampa e dintorni…) cosa gli consiglieresti.

Negli anni ho seguito tanti giovani che si avvicinavano al mondo del giornalismo nella redazione di Unica Radio, della quale sono stato direttore per dieci anni. Il primo consiglio che ho sempre dato è stato quello di essere curiosi: non limitare mai il campo delle proprie conoscenze, osservare, ascoltare, leggere, approfondire. Serve tanto impegno, metodo, sacrificio costante. È una professione che comporta molte rinunce: si lavora la notte, nei weekend, durante le festività, nei periodi in cui tutti si fermano. È un mestiere totalizzante, che definirei quasi una missione di vita e di conoscenza.

Io ormai ci sono abituato e mi alleno, fisicamente e spiritualmente, per reggere certi ritmi e carichi di lavoro. Ma riconosco che non sono in molti a riuscirci. Spesso chi inizia si scoraggia e abbandona, perché oggi il modello dominante di “successo” sembra passare dai social, da un guadagno facile e immediato. Il giornalismo vero, però, è tutt’altro: è serietà, studio e aggiornamento costante, ricerca delle fonti e, soprattutto, deontologia. È rispetto delle regole, della verità e delle persone. E mai come oggi – in un tempo invaso da fake news e notizie costruite per il clickbait – abbiamo bisogno di ritrovare quel binario etico che restituisca dignità e credibilità alla nostra professione.