È tutta scena: Luca Garau prosegue il ciclo di interviste con Enrico Kikko Sesselego, insegnante e tecnico del suono di lungo corso con una vasta esperienza internazionale.
La musica la si fa, la si suona e la si ascolta. Spesso, presi da una insana bulimia, siamo portati a pensare che il processo produttivo si esaurisca in queste fasi, dimenticando il lavoro “sporco” (che poi si tratta di pulizia ) svolto da fonici, tecnici di ripresa, mix engineer, ingegneri di master: figure mitologiche, le uniche a sentire veramente il taglio di 1 db sui 3 kHz, o le differenze tra un rilascio veloce e uno lento, che permettono all’artista di essere goduto negli impianti o nelle cuffie di noi consumatori.
Enrico Kikko Sesselego è uno di questi. Si è formato negli Stati Uniti, al Musician Institute, dove nel 1999 è arrivato per studiare chitarra. Quasi per caso ha scoperto la classe di recording engineering e da lì si è generato tutto il resto: l’insegnamento nella sua stessa Alma Mater e una lunga e proficua carriera che l’ha portato in giro per il mondo, tra masterclass e sessioni di mix, per arrivare a collaborare con nomi del calibro di Paul Gilbert e Steve Vai.
Tra un viaggio e l’altro trova il tempo di fare le tappe in Sardegna, dove per cinque anni ha insegnato Musica e nuove tecnologie al Conservatorio di Cagliari e dove continua a curare il mixing di diversi lavori, da Matteo Leone ai Ratapignata, dagli Uncle Faust ai Suspended.
Abbiamo fatto una lunga chiacchierata sulla musica, su quello che le sta dietro e sulle nuove sfide da affrontare, cercando di affrontare le diverse modalità di approccio all’estero per provare a cogliere spunti da calare nella nostra realtà.
La prima cosa che vorrei chiederti riguarda la terminologia, perché le definizioni sono tante: produttore, mix engineer, fonico, un tecnico del suono. Cosa sono realmente queste figure e quanto possono intersecare la figura del musicista?
In realtà è uno di quei casi in cui la traduzione italiana è quantomeno infelice. Questa è una professione che nasce negli ambienti anglosassoni dove il mix engineer è “semplicemente” chi con il suo bagaglio di esperienza e professionalità sta dietro al banco. Qua in Italia ingegnere di missaggio dovrebbe supporre un titolo di ingegnere mentre – allo stesso tempo – la definizione di fonico ha acquistato un’accezione riduttiva. Comunque, al netto della terminologia e pur venendo da un percorso di formazione teorica e tanto studio, mi sento di dire che in questa professione a fare davvero la differenza è l’esperienza.
Un discorso a parte va fatto per il produttore, figura per la quale ho un grande rispetto. Oggi molti si definiscono produttori, che ci può anche stare, però io sono ancora legato all’idea di produttori come Rick Rubin che fa i Red Hot Chili Peppers e gli Slayer, o Dr. Dre che ha disegnato il suono dell’Hip Hop degli anni 90 e 00. Il produttore è un personaggio ibrido che ha competenze sia musicali, che artistiche e tecniche. Io tendenzialmente non faccio il produttore, preferisco approcciarmi al mixaggio mettendoci ovviamente del mio, ma cercando di tirare fuori il meglio dagli artisti, senza però incidere sulle scelte artistiche e di composizione.
Nella tua carriera hai lavorato con band di estrazione e provenienza diversa – dal mainstream statunitense al DIY nostrano. L’essere musicista ti è stato d’aiuto per trovare una forma di comunicazione “universale”?
È fondamentale soprattutto se sei un musicista melodico, perchè riesci ad avere quel bagaglio di “teoria”, fatto di ritmica, armonia, arrangiamento, che ti permette di entrare meglio in sintonia con l’artista. Spesso – magari non in Sardegna, ma all’estero è frequentissimo – prima di iniziare un lavoro, mi capita di chiedere la partitura dei pezzi per conoscerne struttura, ritmica, tonalità. Inoltre da musicista posso veicolare una sensibilità maggiore verso lo “stato di salute” degli strumenti, quindi accordatura, intonazione. Ad esempio, da chitarrista, dopo due o tre take di chitarra chiedo ai musicisti di fare un giro di accordatura, perchè so che lo strumento, subendo quel tipo di stress, può perdere l’intonazione.
Senza tralasciare il fatto che l’esperienza dello studio di registrazione non è per nulla confortevole. Spesso capita di avere a che fare con musicisti che non hanno mai registrato, mai suonato con il click in cuffia, tutte situazioni che comunque tendono a stressare. E ancora di più questo accade con le band abituate a suonare assieme, in sala e in live, che magari in situazioni più “asettiche” si trovano in difficoltà. Ecco, l’essere musicista è utile per cercare di creare la situazione ideale nello studio, così da aiutare le band a tirar fuori la loro performance migliore.
Negli ultimi anni, qua in Sardegna, la produzione discografica è stata molto intensa e, anche durante quest’anno di pandemia, le pubblicazioni non sono calate di molto. Ma di preciso, oggi, cosa significa produrre, registrare, mixare e masterizzare un disco?
Diciamo che negli ultimi anni il processo è molto cambiato. Va di pari passo con la tecnologia, alla quale è legato a doppio filo. Dunque ogni innovazione tecnologica modifica, necessariamente, anche l’approccio alla realizzazione di un album. Originariamente già dalla produzione si facevano scelte che poi avrebbero avuto ricadute nel mix, dalla scelta del suono finito, alla scelta dei microfoni e dei preamplificatori per la ripresa più congeniale a quel prodotto. Ora, con lo sviluppo dei programmi e dei plug in, è più semplice intervenire in corso d’opera scegliendo colori, sonorità e carattere dei brani, direttamente in fase di mix.
A ciò va aggiunto che sono cambiati anche i media su cui viaggia la musica: ormai lo standard non è più il cd, ma le piattaforme di streaming. È mutata anche la strumentazione con cui si fruisce la musica: sono sempre più rari gli impianti hi-fi mentre gli ascolti sono più diffusi attraverso cellulari e laptop. Diventa imprescindibile una competenza tecnica relativa soprattutto ai livelli, gain staging, loudness da tarare in base al media utilizzato.
Attraverso Youtube, Twitch e Pateron si sono moltiplicati i video corsi (Trappolone, ImproveYourMix, Reaperiani). Da un lato è un bene perché si acquisiscono informazioni importanti e utili nel comporre, dall’altro possono veicolare la sensazione che d’altronde che ce vo’. Che ne pensi?
Esistono due filoni di didattica online. Da un lato ci sono i tutorial veri e propri, magari su singoli plug-in o su outboard, che sono molto utili perché aiutano a capire quali sono le potenzialità del prodotto che si sta utilizzando. Dall’altro ci sono poi una serie di video, molto interessanti e accattivanti, che propongono tricks, presunte tecniche segrete, soluzioni “pirotecniche” che ovviamente hanno la funzione di massimizzare le visualizzazioni. Davanti a questa sovrabbondanza di informazioni, il rischio è che si perda di vista il focus sulle basi, su quelle nozioni fondamentali senza le quali rimane un approccio molto superficiale.
Dal lockdown a oggi, pur nella crisi che il mondo dell’arte sta vivendo, la produzione discografica è stata comunque proficua. Anche qua in Sardegna abbiamo ascoltato tante buone produzioni di quest’ultimo anno e anche tu hai continuato a registrare e a mixare – il disco dei Suspended ne è un esempio. Eppure si percepisce che qualcosa è cambiato, o no?
Fortunatamente sto godendo di un’onda favorevole. Ho viaggiato molto, Sud America, Giappone, Sud Africa, dove ho fatto formazione e seminari e queste sono state occasioni per creare una rete di conoscenze, di collaborazioni che mi hanno permesso, oggi, di raccogliere quanto seminato. Ovviamente è calato il lavoro in studio, ovunque e qua in Sardegna in particolare. Però va detto anche che in quest’ultimo periodo c’è stato un boom di vendite di strumenti musicali e interfacce audio, dovuto al fatto che molti artisti si stanno attrezzando per farsi le registrazioni in casa. Il trend a cui si assiste da una decina d’anni – accelerato esponenzialmente dalla pandemia – è che molti studi grossi dovranno riadattarsi. Probabilmente rimarrà la figura del mixing engineer, ma pian piano diminuiranno le figure dei tecnici di registrazione. Una delle cause principali andrebbe ricercata anche nella diminuzione dei budget messi a disposizione dalle case discografiche, che ovviamente va a incidere sulle fasi di produzione. Gli studi da migliaia di euro al giorno saranno sempre più rari.
Piaccia o no, gli artisti vengono costantemente catalogati per genere, per attitudine, per scena. A te invece capita di passare da Steve Vai ai Ratapignata, da Paul Gilbert a Uncle Faust o Suspended. Secondo te la figura del mix enegineer potrebbe rappresentare un anello di congiunzione tra le varie scene?
Sicuramente questo può succedere sul fronte “sonoro”. Tutte le esperienze che ho fatto mi hanno lasciato qualcosa addosso e hanno arricchito il mio bagaglio tecnico. Come una spugna, ho cercato di assorbire quanto possibile: mi sono fatto l’orecchio sui riverberi delle voci indiane o sulle sonorità del reggae sudafricano. Tutto ciò si traduce in una metodologia personale che poi mi porto appresso in tutti i miei lavori e questo può rappresentare un sottile trait d’union tra diverse scene.
E invece sul fronte dell’intercomunicabilità artistica e stilistica? Sicuramente la tua esperienza internazionale ti ha comunque permesso di conoscere contesti in cui la contaminazione che noi auspichiamo è proficua. Esiste un segreto o qualche formula per riproporre ciò anche qua da noi?
Il livello di contaminazione maggiore e di interconnessione tra stili, generi e scene l’ho trovato in Giappone e, chiedendo ai diversi artisti locali il motivo di questa fiorente commistione, la risposta è stata disarmante: “Noi non capiamo niente delle liriche, degli stilemi dei vari generi, a noi interessano le sonorità. Se i piacciono le prendiamo e le mischiamo” e nella sua limpidezza è la risposta più sensata che io abbia sentito.
Ma effettivamente, in realtà come la nostra, esiste una difficoltà di comunicazione tra le diverse scene e i diversi attori. L’anello di congiunzione che può rappresentare un tecnico è davvero fragile. Le realtà piccole soffrono di questo limite: spesso si pensa il contrario, ma sono queste che più tendono a isolarsi.
Forse il tentativo meglio riuscito di abbattere gli steccati stilistici e di mettere in comunicazione più mondi è rappresentato dai Festival. Io curo la parte tecnica di Miniere Sonore di Oristano e in quella occasione, la creazione di un cartellone variegato è un modo di mettere in connessione stili e generi diversi.
Come vedi, dal tuo lato del banco, la scena musicale del prossimo futuro?
Il segreto, per noi mix engineer, sarà quello di seguire i trend: ciò non vuol dire appiattirsi su mode o tendenze, ma significa aggiornarsi continuamente ed essere sempre al passo con le nuove forme di diffusione della musica, per capire quali sono le modalità per meglio veicolare il prodotto di un artista. La musica viaggia soprattutto in streaming e viene ascoltata prevalentemente da auricolari, casse del pc o del cellulare. Un tecnico del suono deve fare in modo che il pezzo mixato abbia un’ottima resa anche in questo tipo di supporti.
Cosa vorresti dire agli artisti emergenti che oggi si accingono a fare il loro primo disco? Dalla produzione alla registrazione fino al master.
Il primo consiglio è di tipo pratico, da ingegnere di registrazione: studiare le parti, prepararsi a suonare in sezioni e sul click. Da questo dettaglio, che non è scontato, mi accorgo subito se i musicisti sono pronti all’esperienza in studio.
Mentre più in generale a chi vuole fare il musicista di professione consiglio di aggiornarsi di continuo, non solo musicalmente, ma anche studiando e approfondendo i concetti di music licensing, sound libraries e, in generale, tutto il percorso della musica sul web. Perché la strategia commerciale del disco non esiste più, ma è molto più funzionale pubblicare un singolo ogni tanto, così da tenere sempre alto il traffico di views e interazioni.