Dicono che per avere la prova che si tratti di belle canzoni ci sia bisogno di cantarle e suonarle solamente con la chitarra.
Davide Casu è un artista poliedrico. Dopo gli studi a Torino e l’esperienza formativa con la band Èsthesis si trasferisce in Spagna dove, parallelamente all’attività musicale, si dedica nel particolare alla pittura, altra sua forma espressiva, ottenendo buon riscontro di critica. Tornato in Sardegna, riprende a dedicarsi alla scrittura pubblicando diversi libri, sia in Italiano che in dialetto algherese, e vincendo numerosi premi tra poesia e narrativa. È con il brano Sant’Eulalia, però, che torna in maniera più decisa nel mondo della canzone vincendo, nel 2015, da finalista del Premio Andrea Parodi, il premio come miglior testo e miglior musica. Il primo album arriva quindi con Il Poeta nel 2017, facendo partire a tutti gli effetti il percorso discografico di Casu come solista.
Questo doveroso preambolo per inquadrare al meglio la figura del cantautore Algherese, che deve al substrato artistico appena descritto gran parte della poetica del suo songwriting. Concerto per orti e cieli azzurri, infatti, si apre perfettamente col personaggio del poeta, incarnato e autoreferenziale. Una chitarra pizzicata sullo sfondo per una prefazione tra il parlato e il recitato che chiarisce, da subito, la genesi dell’opera e le intenzioni di incidere un disco intimo e spoglio. Poco usuale nel contesto di un album musicale, certo, magari un filo ricercata nel lessico anche, ma senza dubbio utile per evitare fraintendimenti di sorta. Qui si parla di voce e chitarra, formula che punta, da sempre, dritta al cuore.
“Il mio ultimo disco nasce dalla voglia di ritornare alle radici della canzone. Una chitarra, una voce, un testo. Ho registrato questo disco guardando dalla finestra il mio orto, i miei olivi e il cielo terso che li sovrastava in un giorno di settembre, quando ho preso un microfono e una loopstation e ho cominciato a registrare i brani così come li sentivo, tutti in diretta, e quasi esclusivamente monotraccia. E così li ho lasciati, senza mixaggio né altro, immortalando un momento, un concerto per questi silenzi e solitudini. A parte l’ultima traccia che è stata registrata a Sabadell dal vivo, il resto è la mia attuale dimensione live: per me, i miei amici, le mie colture. Eventi assai onesti.”
Ma se da un lato si potrebbe pensare che questo quarto album di Casu sia il suo più “povero”, con l’ascolto si scopre che probabilmente ci si trova di fronte, invece, alla sua opera più densa e coesa. Le canzoni si susseguono in modo naturale, incastrandosi l’una con l’altra senza fatica e mai eccedendo più del dovuto in lunghezza, con un risultato dal respiro regolare e meditato. Un percorso vario che sembra scoprire a ogni svolta uno scorcio inaspettato e accogliente. Un esempio è il fatto che, pur richiamando spesso alla memoria accenti alla Concato o dinamiche alla De Gregori, il talento di comporre canzoni ben strutturate e quasi mai scontate emerge più chiaramente, rivelando anche una timbrica vocale sfaccettata e potenzialmente capace di elevarsi al di sopra dei debiti stilistici.
Rimane forse la tendenza allo specchiarsi troppo nel lessico e nella forma, questo sì, perdendo di vista a volte il bersaglio grosso e lasciando il pezzo in balia del suono delle parole più che del contenuto, così da costringere l’ascoltatore a soffermarsi quel millesimo di troppo per capirne il senso. Un vizio congenito, però, che tutto sommato non sminuisce la dimensione intima e genuina di un album distillato il giusto ma servito su un vecchio tavolo rustico, di quelli che si trovano spesso sotto al pergolato di una casa di campagna dove è possibile calmare l’anima solo guardando maturare gli acini d’uva al sole settembrino.