Le divinità ctonie (Χθονίη) sono delle entità – generalmente femminili e legate al sottosuolo – di cui possiamo trovarne traccia facilmente negli albori della mitologia greca. Se le parole sono importanti, e lo sono, il significato del nuovo disco di Dalila Kayros, intitolato appunto Khthonie (label Subsound Records), va ricercato in quel legame covalente che le nostre piccole esistenze hanno con una terra che è madre e dea.
Per la sua quarta fatica discografica la musicista sarda rinnova il sodalizio con Danilo Casti, mentre Piergiorgio Boi si è dedicato al mastering presso l’Electrical Storm Studio. In copertina si staglia il volto di Dalila, trasformata dal trucco di Sofia Usai in una sacerdotessa di riti dimenticati, rivelando in maniera visiva ciò che è contenuto fra i solchi dell’album. Il nero del suolo e della morte, si scontra sul volto dell’autrice con il rosso del sangue e della vita: nulla è lasciato al caso in un album il cui concetto nasce da un’idea forte che viene sviluppata con coerenza e dedizione.
Immergersi in quest’opera non lascia indifferenti: è un’esperienza che può essere violenta. Le mezze misure non sono contemplate e l’ascoltatore viene sfidato a una presa di posizione rispetto a uno stile che non vuole essere accogliente, bensì spigoloso e affilato. L’evocazione di Ctonie, di Lamia (scordatevi i Genesis, questa è un’altra cosa) e del Leviatano unita a sonorità definibili come “incombenti” porta alla mente forze naturali ingovernabili ed entità femminili pivotali. Un intento coraggioso che centra l’obiettivo nonostante le liriche, sussurrate o urlate in un pastiche di italiano, inglese e sardo, non siano immediatamente intellegibili.
Ma lo scopo in fin dei conti è esattamente quello: la voce non svela, si fa strumento fra i suoni, diventa celebrazione ancestrale prima dimenticata e poi ritrovata fra i digrigni e le note perse in un buio martellante di synth e drum machine. Si potrà disquisire se la straniante Sakramonade si avvicini di più ai pensieri filosofici di Pitagora o di Leibniz, ma certo è che l’espressività di Dalila Kayros riesce a inerpicarsi dalle carezze ai growl più aspri per quarantatré minuti, ispirando lava, forze tettoniche, oscurità, preghiere. Nella finale Corpus Sonorum si avvertono in maniera quasi fisica vibrazioni forti e incessanti che squassano la forma canzone. Fra le nove tracce si può passare attraverso una inquieta placidità carica di tensione, ma anche per improvvisi momenti da baccanale arcaico ritmato e aggregante, perfetti per danze sciamaniche da equinozio come per un concerto del nostro secolo.
In Khthonie il suono e il canto si fanno rito tribale, in un solco identitario seguito anche dagli Ilienses, ed è fondamentale notare come stili anche molto diversi fra di loro possano evocare immagini e intenzioni che si dirigono verso un identico luogo. L’uso che viene fatto del linguaggio da parte della compositrice può richiamare lavori che hanno un peso specifico importante come Spira di Daniela Pes e Die di Iosonouncane, eppure parliamo di qualcosa di diverso. Le possibilità espressive di un codice privo di regole grammaticali e sintattiche fisse permettono uno sviluppo originale e estremamente personale di un’idea condivisa con altri artisti.
La ricerca non solo vocale, ma anche musicale, di Dalila Kayros è ispirata e portata spesso verso territori estremi e impervi. Ci ricorda, con buona pace del patriarcato, che i semi del nostro essere sono piantati in quella terra che è donna e madre, e alla quale ritorneremo dopo quel rapido passaggio che noi chiamiamo vita.