WeAreSynthetic - Ready for Porn - Costello's - Artist First - 14 dicembre 2021 - recensione - disco della settimana - Marco Cherchi - 2022 - Sa Scena - 19 gennaio 2022

Ready for Porn – WeAreSynthetic

Marco CherchiMusica, Recensioni

Fare elettropop nei venti-venti con testi che richiamano la mania di certi soggetti erotomani e ricercatori di cimeli fetish sui social e al contempo prendersi musicalmente sul serio non è impresa da tutti. Verrebbe quasi naturale buttarla in cacciara, unire grottesco e ironia e ricamarci attorno qualcosa a metà tra Immanuel Casto, Ruggiero dei Timidi in versione Remix, un play synk di una drag queen e un’esibizione dei Fire Saga agli EuroVision. Il rischio di scadere in un Frankenstein-trash di dubbio gusto è quotato piuttosto alto.

C’è chi invece, pur rimanendo in una placenta di naturale ironia si impegna alacremente in una produzione musicale di qualità sopraffina sotto lo sguardo complice di una sempre verde Sabrina Salerno appesa a mò di santino in sala prove. E prendendo il tutto molto seriamente.

Costretti, inizialmente, a un cambio di ragione sociale per rifuggire dall’omonimia con una band death metal tedesca, ai è bastato trasformarsi in uno slogan che suona come un manifesto alla modernità digitale, uno spot programmatico accompagnato dai synth e da sonorità elettroniche. Quello che ne esce è una ciliegina indie/pop-dance avvolta in una carta di color magenta elettrico. 

Tante le influenze condensate nelle cinque tracce di Ready for Porn: si parte dalle reminiscenze di Italo disco anni 80 e filo Human League di Cherries per arrivare agli arrangiamenti monocorda in delay di “Malicious”, alla vaporwave di “Cry” con le sue atmosfere da boulevard post-midnight, fino ai loop di chorus e synth di “Try to Hope” che, incalzando in chiusura, non sembrano lontani dagli LCD Soundsystem più danzerecci (Tribulations, One Touch per citare alcuni episodi). Ed è proprio Malicious il colpo di fulmine del disco, la hit da classifica che mette d’accordo tutti e che non disdegna il loop in piastra, risultato di un equilibrio alchemico tra elementi: su tutti è la chitarra di Franco Demontis a rimanere timbrata dopo l’ascolto, inizialmente pizzicata, elegantemente morriconiana a far da padrona con un riff che è il vero chorus del pezzo, fino a salire in cattedra e liberarsi in un vero solo che domina il finale come non si sentiva dalla chiusura di “Sing it Back” dei Moloko.

Insomma, è ben chiaro che siamo lontani anni luce dalla mera parodia e dai revival, quanto più vicini a una ricercatezza che rasenta il moderno art-deco, senza mai rinunciare alla leggerezza e a far muovere i fianchi. Una pop-art del riciclo che stacca ancora i biglietti all’ingresso.

Ben calibrata la scelta di ripresentarsi al pubblico in forma di EP, con cinque assaggi che si muovono in una cornice fatta di quattro lati e un piano che è la risultante del sound del trio sassarese. Una faccia di quello che è il progetto nella sua forma attuale ma con tutta l’intenzione e la piena potenzialità di evolversi e realizzarsi in qualcosa di sempre più totalizzante a livello di scrittura e sonorità, meno quadrato e schematico, verso episodi emotivamente più profondi e riflessivi ma anche più punk (LCD Soundsystem il primo pensiero, Justice o Soulwax il secondo). 

Un disco che viene spontaneo definire maturo e credibile, perché ci muoviamo in un magma in cui non è tanto cosa si suona, ma come lo si fa.

Non a caso, il vate James Murphy (LCD Soundsystem, ancora loro) in tempi non sospetti  predicava: “il mondo non ha bisogno di altra musica, facciamo musica dance perché fa ballare la gente. Non è una rivoluzione“. E fa proprio questo. Riaccende il dancefloor senza preoccuparsi di chiedersi in che anno siamo. Perfetto per “far scappare i piedi” come piace dire a noi campidanesi, uscito quasi beffardamente proprio in quel dicembre che vedrà l’ennesima chiusura delle sale da ballo, ma che può fare tranquillamente la sua (s)porca figura anche in una playlist da pulizie domestiche o in sottofondo a un party in casa con super-green-pass e perizoma rosso. 

Perché, come diceva un noto duo con il casco, “siamo umani, prima di tutto“.