Uncle Faust

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Rilasciato lo scorso diciassette luglio grazie alla collaborazione delle etichette TiConZero e Wallace Records, Uncle Faust è il primo disco della formazione omonima composta da Fabio Cerina, Raffaele Pilia e Antonio Pinna.

Il progetto nasce nel 2008 da una serie di composizioni istantanee registrate nell’abitazione studio di Cerina. I musicisti, già impegnati in altri progetti (Plasma Expander, Julia Ensamble e Pyramiden Project, o Safir Nou e La Tarc), sfruttando negli anni il potenziale delle diverse formazioni che li hanno visti protagonisti live, sono arrivati alla sintesi perfetta nel trio che ha prodotto il primo lavoro discografico.

Registrato a Dolianova presso lo Spazio Homu nel 2017 – e missato nel biennio successivo, fino alla recente pubblicazione –, l’album è un concept multiforme, per dirla con Omero, costituito da cinque composizioni in cui ritmi e melodie vengono afferrati, abbandonati, mischiati, fusi e sovrapposti fino a creare un magma di richiami e intuizioni che, come la lava di un vulcano pigro, si rimesta sull’orlo dell’eruzione senza la pretesa di esplodere.

La prima traccia, Minuendo, è un amalgama di ritmi scomposti in cui un lungo solo di chitarra la fa da padrone fino a schiudersi in Never with the day. Il secondo brano, cupo e a tratti tribale, ricorda le atmosfere del Capossela di Ovunque Proteggi, e la sardità intrinseca di alcuni passaggi diventa contemporanea, tanto da apparire come una cartolina arrivata da un futuro in cui si è riusciti a salvaguardare l’antico, le origini.

Badly Broken Mandarins, posta nel mezzo del disco e quasi fosse il suo vertice, scivola ipnotica e alta, grazie anche al sax tenore di Marcello Carro che contribuisce a renderla la punta di diamante di tutto il lavoro.

Una volta raggiunto l’apice, è necessario ridiscendere, e lo si fa con The Blue Rubber Eraser che, con un andamento serrato e un urlo sordo, sfocia in Sugar Cables, il pezzo più cantato dell’intero album e forse quello, per quanto meno innovativo, più compiuto.

Le ispirazioni presenti nel disco – che spaziano tra psichedelia, prog e groove, per citarne alcune – risultano forse troppo poliedriche per fondersi con organicità in un risultato finale. Come si fa in oriente, dove le montagne non si assaltano ma ci si gira attorno senza mai arrivare in cima, così il disco degli Uncle Faust – nel suo sforzo sisifeo – inchioda a un plateau infinito senza deflagare mai. Ma i presupposti sono eccellenti e fanno sperare in un sequel che prenda alla lettera la celebre frase: “l’importante è finire”.

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Ascolta il disco omonimo degli su Bandcamp
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