Dei Drought, progetto sospeso tra black e post-metal, ci è dato sapere ben poco: band misteriosa formatasi nel recente 2016, forse nativa del cagliaritano, due album all’attivo con Avantgarde Music, nota label di genere (Mayhem, Katatonia). Impossibile andare a fondo nel profiling, se non affidandosi con fiducia ai propri sensi nell’ascolto di “Trimurti”, primo full-lenght in teca per la band. Copertina che, in chiusura d’anno, ritroviamo al numero 16 delle migliori 20 uscite 2020 in Italia, stilata da Impatto Sonoro. Un album black metal, in un best of con Bersani e Bianconi. Un po’ l’effetto che farebbe trovare il Piccolo Coro dell’Antoniano in un confronto all’Americana, tra Burzum e Dimmu Borgir. Un ossimoro più che ricercato, che và oltre il banale tentativo di unire sacro e profano per stimolare interesse nel pezzo.
Ebbene si, perché l’intento fortemente voluto dai Drought con Trimurti, ovvero quello di farne un concept in tre tomi ben distinti, emerge chiaramente dal primo ascolto. Fine raggiunto imprimendo dei solchi profondi come stigmate tra le tre sezioni, scavati con la mannaia del metal estremo, il trait d’union tra overture ed epilogo, angoscianti campiture di una cornice in cui è la sensazione di annichilimento a fare da padrona. Dal liquido amniotico della prima pièce, prende forma una sessione dark-ambient sospesa tra sonorità tribali e ritualistiche, una cesura di 13 minuti scandita dalle percussioni, a evocare l’intervallo in cui, nella pratica meditativa, si trattiene il respiro.
È, di fatto, questa l’allegoria raccontata dai Drought esponendo la divinità induista del Trimurti, tre facce di un percorso di elevazione spirituale attraverso la meditazione e l’interessenza della natura circostante.
Concetti complessi, ma che la band riduce a un comun denominatore, un atto di trasformazione interiore reso in musica da una perfetta alchimia di influenze, dalla melodia nevrotica e quasi “Neurosiana” dell’incipit di “The awakening of the sleeping Serpent”, fino alla rabbiosa apoteosi in tremolo picking della tripletta finale.
Il risultato non era scontato se si pensa che si sta maneggiando una materia, il Black, di per sé difficile da modellare in forme diverse dalle figure classiche, più devote all’iconografia pagana che non ai topoi della religione induista.
A fare la prosa dei concetti sviscerati nel trittico di cui si compone l’album, è una produzione sopra le righe che ha nel mixaggio, realizzato da James Plotkin (Amenra, ISIS, Sunn O))) ), il suo solstizio.
Stranisce, ma al contempo centra in pieno nel segno, la scelta di utilizzare l’elegia Black a descrivere l’esperienza di quello che non è semplicemente un disco da ascolto, quanto più un pellegrinaggio spirituale che trascende la forma musicale, relegata quasi a ruolo di alfiere rispetto al concept, ma non meno importante nella visione d’insieme dell’opera.
Un risultato frutto di un progetto studiato nei minimi dettagli, dalla scelta di non apparire, all’obiettivo riuscitissimo di stimolare la conoscenza attraverso l’ascolto.
Soluzione che è stata colta da chi, a fine anno, si è trovato a riflettere su cosa portarsi dietro di questo 2020. Trimurti è, di diritto, feticcio di un tempo che la memoria cercherà di occultare sotto le proprie ceneri, uno stimolo per il subconscio a lavorare in un esercizio d’inversione in cui dalle esperienze maggiormente dissonanti vengono rievocati i ricordi migliori.