Varioius Artists - Timeless, in the quiet sound - A Celebration of Faith - 1981-2021 - The Cure - ascolti - album - 2021 - Sa Scena - 26 aprile 2021

Timeless, In The Quiet Ground, 1981 – 2021 A celebration of Faith (The Cure) – Various Artists

Claudio LoiMusica, Recensioni

Quando i Cure pubblicarono Faith nel 1981 la concorrenza era spietata: quell’anno uscirono capolavori di Echo & the Bunnymen, Eno/Byrne, Siouxie, D.A.F., Clock DVA, Rip Rig & Panic, Stray Cats, Lounge Lizards, Psychedelic Furs, Japan, Gun Club, New Order e così via per un elenco che potrebbe continuare per diversi fogli protocollo. Un momento storico che vedeva il punk defluire in mille ruscelli sonori che si diramavano in modo casuale e incontrollabile. Noi la chiamavamo New Wave, qualcun altro ha deciso che si trattava, appunto, di post punk, ma, oltre le facili categorie merceologiche, rimane un periodo di impetuosa creatività che ancora risplende nella lunga e tormentata storia del rock

E poi c’erano i Cure che in quei lontani giorni fecero uscire Faith, logica prosecuzione di Seventeen Seconds e stazione intermedia di una via crucis oscura che si completerà un anno dopo con Pornography. Dopo seguirà un’altra storia fatta di grandi numeri, successi insperati e qualche rimpianto versi quei primi incredibili dischi. Eppure quando uscì Faith non tutti capirono la portata di quel lavoro: recensioni tiepide, qualche mugugno, un po’ di sufficienza e tanta confusione. Rockerilla (che allora dettava legge in Italia) lo mise al ventesimo posto nella playlist dell’anno: ultima posizione che non rende merito a un disco che nel tempo è diventato sempre più importante. I Cure insomma erano poco rock per i punk e troppo poco dark per gli adepti dell’universo gothic: si posizionavano in una sorta di crinale in bilico tra mondi diversi senza lasciare troppe certezze ma con la consapevolezza di fare esattamente quello che gli veniva meglio. 

Anche Simon Reynolds in Post Punk (la sacra scrittura…) non si dilunga troppo sui Cure dedicandogli una mezza paginetta giusto per onorare la presenza e li definisce: “Una versione softcore dei Joy Division intrisa di analoghe fonti esistenzialiste in cui al desiderio di morte appena velato di Ian Curtis si sostituisce il pallido sconforto di Robert Smith. La voce derelitta e introversa di Smith, il ritmo fiacco e la foschia delle chitarre contribuivano a plasmare una delle forme di rock più nevrasteniche mai fissate su vinile. Eppure, quegli album così opprimenti e scoraggiati cementarono la statura dark dei Cure, gettando le basi per il loro longevo e strepitoso successo di culto: una vasta legione di anime in pena disilluse, i sognatori perduti di periferia”. Tutto vero si direbbe ma si legge anche un leggero fastidio e una presa di distanza da una proposta che invece merita e meritava più attenzione. Poi passa il tempo e tutto si legge con una luce nuova e il tempo ha dato ragione ai quei tre ragazzi immaginari e alla nebbia dolorosa di Faith e quei brani sono rimasti un punto di riferimento di una stagione per certi versi unica e irripetibile. Come unica e inconfondibile era la voce di Robert Smith su quel sound secco, malato, oppressivo ma anche pieno di vita e speranza, un disperato bisogno di redenzione e quel beffardo tocco di glamour appena accennato sulle sue labbra: joker dark e malinconico, indolente e sempre un po’ fuori fuoco.

E a distanza di 40 anni ecco arrivare il dovuto tributo grazie alla voglia di Mauro “Vanvera” Vacca di rimettere mano a quei suoni e a quelle atmosfere. Vanvera e i suoi amici fanno fronte comune e decidono di riproporre la sequenza originale del disco più alcuni bonus usciti nello stesso periodo come singoli. Oltre a Mauro Vacca, i nomi coinvolti sono tanti e tutti fedelmente fedeli a quella storia e ognuno ha fornito una sua personale lettura dei fatti. The Holy Hour viene proposta da Les Dimanches Miserables (Luca Gambula) in una versione secca e asciutta, come si conviene. Maggot Madness (Simone Mura) si occupa di riscrivere Primary con un delicato synth pop che scivola alla perfezione. Other Voices è straniante rievocazione proposta da Ghost Uniform con la voce di Roberta Etzi insieme a Mauro Vacca e Antioco Ruggeri. Memory of Sho (un satellite della galassia Diverting) riscrive All The Cats Are Grey in una versione etheral wave dalle tinte dark e ipnotiche, plumbea e scura e senza voci. The Funeral Party viene lasciata a Was (Andrea Cherchi) che non tradisce il mood originale e ne esalta la trama sonora. XU (Andrea Pilleri) si diverte a stravolgere Doubt con eleganza e stile e una voce distorta, distrutta, decentrata. Plaisir reinventa The Drowning Man, una delle tracce più sofferte dell’album, con piacevole andamento ipnotico e un bell’impasto di voci e suoni. Chiude la scaletta originaria Faith grazie a Loono (Gianluca Pisano, Bruno Saiu e Fabio Orrù) e qui arriva la vera sorpresa con quel cantato in italiano che rimanda a gloriose evidenze di quei tempi andati (tipo Carillion del Dolore): una scelta coraggiosa che funziona e non fa rimpiangere l’idioma originale. Il disco originale finiva con questa traccia ma alcune bonus tracks arricchiscono questo tributo. Giacomo Salis propone Descent (che uscì come lato B del singolo Primary nel 1981) in una versione ancora più cupa e drammatica dell’originale. Sono poi i Cherry Pies a interpretare Charlotte Sometimes che uscì come singolo nel 1981 e che come lato B proponeva Splintered In Her Head che chiude questa compilation per mano di Vanvera (e Roberta Etzi) con una versione perfettamente in linea con la filosofia dei Cure.

Tributo isolano, ma dal respiro cosmopolita, lavoro di gruppo che piace, seduce e fa venire la voglia di rispolverare quel vecchio vinile. A distanza di tanti anni, quei suoni sono ancora pieni di magia e di introspezione e le nuove versioni rendono il giusto omaggio a quel capolavoro. Chissà cosa ne penserà il buon Robert Smith