Ricorrere a tecniche, strumenti e suoni contemporanei per realizzare musica davvero attuale può non essere così complicato come farlo valendosi di soluzioni più canoniche, standard. Perché se nel primo caso la “patina” che riveste un progetto può diventare determinante, rendendo la contemporaneità del lavoro più “riconoscibile” e dando la possibilità di mettere il contenuto in secondo piano, nel secondo caso, il contenuto, denudato di ogni decorazione, prescindibile e non, deve diventare protagonista e reggere da solo l’ascolto. E l’impressione che si ha ascoltando Teju, sembra essere proprio quella di un lavoro che trova un suo spazio in questo tempo, senza dover ricorrere a chissà quali stratagemmi di forma, ma lavorando di fino sulla sostanza.
Le composizioni del disco di esordio di Filippo Loi, giovane chitarrista di Guspini, uscito lo scorso settembre per l’etichetta Emme Record Label, hanno iniziato a prendere forma negli anni del lockdown e sono state affinate insieme al contrabbassista Carlo Bavetta e al batterista Lorenzo Attanasio, conosciuti durante la frequentazione del Conservatorio di Milano. Si tratta sostanzialmente di un disco jazz rock, onesto, pulito e soprattutto povero di ridondanze virtuosistiche che hanno caratterizzato una certa produzione chitarristica eighties, da cui Loi ha comunque attinto a piene mani (Pat Metheny e John Scofield su tutti).
A differenza di come sembra voler essere dipinto,Teju è un disco che fa un uso molto discreto della tradizione musicale isolana e mediterranea, la quale lo ispira, ma non lo trascina, lo guida, ma senza condizionarne le sorti. Loi dice di aver voluto “dare priorità alla funzione sociale della musica sarda”, spunto interessante che lo svia dal ricercare a tutti i costi un’evoluzione sonora. Così la ninna nanna Anninnia conserva solo sprazzi di melodia e ritmo tradizionale, mentre la title-track, nenia funebre la cui origine si perde nei secoli, abbandona il suo afflato cupo e, dopo il cenno alla sonata BWV 1001 di Bach in apertura, si trasforma in una lunga concatenazione di riff e trame metropolitane.
Certo, all’interno del disco trovano spazio brani di ispirazione “classica”, come i blues di Green Horizon e di Body and Soul, la bossanova di Tempus Ingannadu, lo swing leggero di Lupus in Fabula o la fusion di Pool Party. Eppure, nonostante l’impostazione “classica” nei riferimenti e nell’apparenza, il lavoro del trio riesce a suonare meno passatista di quanto potrebbe apparire. Nei 55 minuti di durata si sente tutta la lunga gestazione che ha portato alla sua incisione e il lavoro di scrittura e composizione dei brani ha fatto in modo di renderli stimolanti all’ascolto e meno stucchevoli, dote ammirevole per un disco dominato dalla chitarra. Il livello tecnico di Loi è palese, ma altrettanto evidente pare una encomiabile volontà di asciugare i brani e renderli intelligibili, senza sconfinare in tentazioni jazzy, da un lato, o nell’eccessivo manierismo tecnico e sonoro, dall’altro. Obiettivo faticoso da raggiungere, ma centrato con onestà e riguardo.