Il bluesman di Cagliari si racconta ai microfoni di Cagliari Blues Radio Station per la rubrica Talkin’ Blues
Le fotografie sono di Gianfilippo Masserano
William Rossi, in arte WilliBoy Taxi, tassista e musicista a tempo pieno, nasce a Cagliari nel 1980. La musica arriva nella sua vita a 24 anni e si presenta da subito come un’esigenza. Nel mondo del blues è conosciuto per i primi suoi anni di attività come voce e armonica dei Dirty Hands, band formatasi a Cagliari nel 2008 e per il progetto in duo con Vittorio Pitzalis. Da circa un anno ha deciso di incentrare i suoi sforzi su un progetto personale con il quale ha lavorato su brani quasi tutti originali: “Down the Road”.
Incontro WilliBoy in una sua pausa di lavoro presso la stazione dei taxi di Quartu Sant’Elena. Ci sediamo al bar più vicino e mentre aspettiamo il caffè iniziamo a conversare.
Ciao William, partiamo dal tuo modo di vederti. Come ti descriveresti artisticamente?
Canto, ma non mi considero un cantante, suono la chitarra, ma non mi considero un chitarrista, mentre mi considero un armonicista. Grazie all’armonica ho iniziato un percorso di approfondimento e conoscenza musicale che prescinde dai generi, per quanto rimango fortemente ancorato al Blues.
Oltre che un musicista prolifico sei un ottimo ascoltatore di blues dalla sue radici sino ad oggi, quando e come è scattata la scintilla per questo genere?
Quando ho ascoltato per la prima volta John Lee Hooker. Si è rivelata la musica più diretta mai ascoltata sino a quel momento e nel tempo si è confermata la musica più adatta alla mia persona e al mio percorso artistico.
Come ti rapporti a testi e musiche? La tua musica, le tue canzoni raccontano del passato, del presente o del futuro?
Penso sempre al presente, sia nei testi che nelle musiche. Dentro le canzoni che ascolto, che studio, che scrivo, ci sono sentimenti universali e senza tempo.
Come sono cambiate le tue influenze musicali nel tempo? Chi ti ispira oggi e chi lo ha fatto quando hai iniziato?
Big Walter Horton, poi Charlie Musselwhite, James Cotton, Paul Butterfield e Billy Branch. Assieme a questi armonicisti “storici “ sono un importante punto di riferimento gli armonicisti più moderni, quali John Popper, Carlos Del Junco, Howard Levy e Jason Ricci.
Di recente è uscito il tuo progetto solista, indipendente “Down the road”.Come descriveresti il tuo lavoro dal punto di vista musicale?
Questo album, o come preferisco definirlo, questa raccolta di canzoni, è un regalo che ho voluto fare a me stesso. Un punto di partenza, uno piccolo check da cui magari ripartire e migliorare. Le canzoni sono state scritte in lingua inglese, sono quelle in cui mi riconosco e sono l’ossatura del progetto. Quasi tutti i brani sono originali alcuni già rodati con i Dirty Hands, band nel quale ho suonato per diversi anni, ho voluto dare un vestito nuovo, più vicino ai miei gusti attuali, tra folk e blues.
Come è andata la produzione del disco e chi ti ha affiancato nella sua registrazione?
È stato un periodo carico di belle emozioni, piacevolmente condiviso con altri musicisti della scena cagliaritana, in primis Vittorio Pitzalis, il quale mi ha assistito nella sua realizzazione lasciando poi un’impronta importante nel suono. Gli altri compagni di questo viaggio sono stati Andrea Locci, impegnato sia al basso che al mixer, Mauro Mulas al piano, Anna Maria Viani al violino, Giorgio Del Rio e Pierpaolo Frailis alla batteria.
C’è una canzone del tuo repertorio che in qualche modo ritieni possa rappresentarti meglio delle altre?
Il brano del grande Freddie King, “Going Down”. Ogni volta che la interpreto mi regala emozioni positive, per quanto nel suo testo racconti le emozioni di un uomo che scivola verso il basso.
Guardandoti indietro, pensi che esista un legame tra la tua storia e quella del blues e dei suoi protagonisti?
Non dedicherei una grossa parte della mia vita a questa musica se così non fosse. Il blues come stato d’animo si è sviluppato prima tra gli uomini e le donne che hanno vissuto la condizione di prigionia nel sud degli Stati Uniti. È stata quindi la risultante tra l’accettazione e la resistenza propria degli africani deportati negli Stati Uniti. Non voglio paragonare le mie sofferenze a quelle legate alla schiavitù o alla deportazioni, ma il blues mi aiuta ad accettare o superare le pagine più difficili della mia vita.
Nella tua vita avrai assistito a tanti concerti. Ce n’è uno che ti ha colpito in modo particolare e pensi valga la pena raccontare?
L’ultimo concerto in Sardegna di Johnny Winter per Rocce Rosse and Blues ad Arbatax. Nonostante lui fosse in una fase difficile della malattia, riuscì a regalare un grandissimo e lunghissimo live ricco di energia ed emozioni.
Tra tutta la musica prodotta e diffusa cosa stai ascoltando in questo periodo? Ci sono artisti sui quali ti stai soffermando maggiormente?
Ascolto il blues dei nostri tempi, proveniente da tutte le parti del mondo da Taj Mahal a Otis Taylor, Keb Mo’ e Dr John. Assieme al blues ascolto bossa nova, mariachi, rhumba, musica cubana, argentina, zydeco, Vivaldi e Beethoven. È una continua scoperta!
C’è un disco che ti ha cambiato la vita?
Più che un disco parlerei di una canzone: nel periodo in cui è nata la mia passione per la musica, il mio insegnante di chitarra mi fece ascoltare Wish You Were Here (si, non l’avevo mai ascoltata) dei Pink Floyd e ne rimasi incantato.
Fare il musicista professionista oggi non è semplice. La musica rappresenta il tuo unico lavoro?
No sono principalmente un tassista, e da qui nasce anche il mio nome d’arte. Mi permette di continuare a studiare e ascoltare musica. Ho una famiglia e due bambine alle quali voglio dare la possibilità di poter sognare. Al momento fare il tassista me lo permette. Forse un giorno le cose cambieranno e allora non avrò nessuna remora a parcheggiare il taxi per vivere di musica.
Il blues è un genere che ha più di 100 anni di vita e nelle sue varie evoluzioni resta fortemente ancorato alle sue radici del Delta e del successivo stile “Chicago Blues”. Come immagini il futuro di questa musica?
Lo immagino sempre più influenzato dagli altri generi musicali, per quanto la chitarra, l’armonica e la voce rimarranno sempre protagoniste indiscusse.
Il blues in Sardegna è un genere ben radicato, sono molti i musicisti e i progetti, le band, i festival e un pubblico numeroso e partecipe. Come spieghi questo fenomeno?
Il Blues, musicalmente, è un genere che dà speranza. È un genere ormai riconosciuto come universale, ricco di leggende e storie ordinarie, così come la nostra terra.
Nel tuo percorso hai mai pensato o percepito di far parte di una comunità o di una scena di musicisti blues? Esiste un tessuto solido capace di unire i suoi musicisti?
Ho sempre incontrato artisti con una visione positiva. Il mio ultimo lavoro in studio mi ha dato conferma che esiste una reale comunità di musicisti, blues o non, con i quali è possibile lavorare e scambiare le proprie idee e visioni.
Il blues negli anni ha ispirato oltre i musicisti, scrittori e registi. Quali sono i libri o i film che ti senti di consigliare ?
“Il Blues” di Vincenzo Martorella (Ed. Einaudi) è un saggio sul genere di cui consiglio la lettura, “The Blues, according to Lightnin’ Hopkins” (di J. Lomax Jr) è un film che consiglio di vedere.
La nostra conversazione viene interrotta da una chiamata per una corsa in taxi, arriva così il momento di salutarci. Ci diamo appuntamento sotto uno dei palchi blues in Sardegna e lo stesso facciamo con voi lettori. Just Keepin’ the Blues Alive!