Talkin' Blues - Francesco Piu - Sara Deidda - intervista - Simone Murru - Cagliari Blues Radio Station - 2022 - Sa Scena - 14 maggio 2022

Talkin’ Blues – Intervista a Francesco Piu

Simone MurruInterviste

Il bluesman di Osilo si racconta ai microfoni di Cagliari Blues Radio Station per la rubrica

Intervista di Simone Murru

Osilo svetta tra le cime delle montagne a pochi chilometri da Sassari. Qui ho appuntamento con , classe 1981, uno degli artisti di punta del panorama artistico sardo. Lui è una delle quasi tremila anime di questo paese dove è tornato a vivere, a fare base, dopo essere emigrato, aver viaggiato e, soprattutto, suonato in tutta quella parte del mondo dove il blues si è diffuso. Entriamo in un bar e ordiniamo un caffè prima di iniziare un viaggio tra il passato, il presente e il futuro della sua musica.

Credits: Antonello Sedda

Quando nasce il tuo legame con la musica?

La mia passione per la musica nasce da bambino, grazie a mio padre. Ha suonato il basso negli anni ‘60 e mi ha fatto ascoltare in tenera età i suoi vinili. Così, attraverso la musica di John Mayall, Led Zeppelin, Black Sabbath e Deep Purple, ho conosciuto il british blues e il rock. Ho iniziato a suonare quella musica per passione e oggi sono riuscito a farne una professione.

Qual è stato il primo ascolto che ti ha fatto scoprire il blues?

Il mio primo ascolto blues è stato “Jazz Blues Fusion” di John Mayall. Sui solchi di questo disco ho iniziato a provare e riprovare, cercando di imitare i passaggi e risuonando le note con l’armonica e la chitarra. 

Tra le diverse figure della storia, quale musicista ti ha influenzato di più?

Le ispirazioni sono state e sono moltissime, a iniziare dai chitarristi: per primo Jimi Hendrix, poi Eric Clapton e il rock di Ritchie Blackmore, ma anche Eddie Van Halen. Freddie King, Albert King, B. B. King, Stevie Ray Vaughan e chi ha legato il rock al blues come Gary Moore o Rory Gallagher. Altri riferimenti li ho trovati nella produzione di Pat Metheny o il jazz di John Coltrane e Miles Davis. Infine i Rolling Stones, la cui produzione musicale continua a essere un punto di riferimento per me, nonostante ormai copra un arco temporale di quasi sessant’anni.

Dove si spingono oggi le tue ricerche musicali?

Oggi la mia ricerca prende forma nel viaggio a ritroso verso le radici musicali mediterranee: ascolto molto desert blues e, contemporaneamente, esploro la produzione ancestrale sarda. Le due culture musicali sono entrambe capaci di contaminare e ampliare la mia visione del blues.

Dopo tanti anni e diverse formazioni, quali progetti porti avanti?

I miei progetti attuali sono due: ho riabbracciato la chitarra elettrica, dopo diversi anni di lavoro sulla acustica, per dare vita ad un progetto blues in “power trio”, che si rifà ai modelli dei Cream e degli Experience di Jimi Hendrix; il secondo, un progetto nuovo, è quello dei “Groovy Brotherhood” dove vengo affiancato da vere e proprie star del panorama nazionale e internazionale, come Roberto Luti, Silvio Centamore e Davide Speranza.

All’attivo hai otto dischi tra live e studio. Tra i brani che hai inciso quale senti più rappresentativo?

Hold On” dell’album “Peace and Groove”. Il suo testo, soprattutto nei periodi difficili, mi ricorda di non mollare mai. Si basa su un groove che rispecchia appieno il mio modo di suonare: energico, semplice, pieno di ritmo e di vigore con un importante impatto sonoro.

Come nascono le tue canzoni?

Le mie canzoni nascono sempre dai groove: parto dall’aspetto ritmico e poi sviluppo il riff e l’andamento del brano. Per quanto riguarda i testi, parto da un’idea di base, poi mi faccio affiancare da chi scrive di mestiere: ho avuto l’onore di lavorare a quattro mani per tutto l’album “Peace and Groove” con Salvatore Niffoi e, in precedenza, ho potuto fare affidamento sull’esperienza di Daniele Tenca.

Qual è la canzone che avresti voluto scrivere?

Sono molti i brani che adoro e che avrei voluto scrivere. Su tutti “Can’t find my way home” dei Blind Faith e “Gimme Shelter” dei Rolling Stones.

Credits: Sara Deidda

La tua storia personale si incrocia in qualche modo o momento con quelle dei bluesmen?

La mia non è una storia minimamente paragonabile a quella degli afroamericani e alla loro sofferenza. Il blues, semplicemente, mi fa stare bene e mi permette di esprimere al meglio la mia musica. Il mio tessuto sociale è ben lontano da quello di chi l’ha scritta e composta per primo. Lo stato d’animo e la sofferenza che ci sono dietro, noi bianchi non l’abbiamo mai vissuta e non la possiamo nemmeno immaginare.

Chi è ora il tuo musicista di riferimento?

Tra i molti musicisti ancora in attività, scelgo Eric Clapton.

Francesco Piu dalla parte del pubblico. Quali concerti ricorda e ci racconta?

Uno dei migliori concerti che ho visto è quello di Prince nel 2009 a Milano, poi Eric Clapton ad Hyde Park, Londra e Joe Cocker, sempre a Milano. Ho vissuto e partecipato – impossibile quindi dimenticare – a tanti importanti concerti che ho avuto l’onore di aprire: Johnny Winter, Robert Cray, The Derek Trucks Band, Charlie Musselwhite, Larry Carlton, Doyle Bramhall II, Albert Lee, tutti i concerti dell’ultimo tour in Italia di John Mayall e poi Tommy Emmanuel. Infine Eric Bibb con cui ho spesso condiviso il palco.

Cosa stai ascoltando in questo ultimo periodo?

In questo periodo ascolto molta musica del Mediterraneo, in particolare del Nord Africa e del Mali.

Un disco che ti ha cambiato la vita?

From the cradle” di Eric Clapton, è stata una rivelazione che mi ha introdotto al blues di Chicago.

Hai qualche consiglio per i nostri lettori?

Per gli appassionati di blues consiglio di ascoltare i Tinariwen, Bombino e Ali Farka Toure con Ry CooderTalking timbuktu”.

Il musicista rappresenta il tuo unico lavoro?

Sì. E il mio mestiere è fare concerti. Non ho coltivato altre professioni, Sino a oggi sono riuscito a “campare” con la musica e spero di poterlo fare per tutto il resto della mia vita.

Come immagini il blues del futuro?

Lo immagino sempre più contaminato e spero che così i più giovani possano scoprirlo e coglierne lo spirito fondato sulla magia della condivisione.

Come spieghi la diffusione di questa musica in Sardegna?

Va dato molto merito agli organizzatori dei festival che da trent’anni portano nell’isola i nomi più prestigiosi del panorama inglese e americano. La mia generazione ha avuto la possibilità di ascoltare dal vivo il meglio del blues a livello mondiale. Oggi questa musica è patrimonio di molti musicisti sardi, che a loro volta sono apprezzati sia sulla scena nazionale che internazionale.

Esiste una comunità blues verso cui hai un senso di appartenenza?

Esiste una comunità blues in Italia fatta di collaborazione e solidarietà tra i suoi artisti, praticamente una grande famiglia.

Quali film consigli?

Consiglio tutti i film prodotti da Martin Scorsese, nel 2003, all’interno della serie intitolata “The Blues”: sette film che raccontano le diverse anime del genere attraverso registi come Wim Wenders o Clint Eastwood.

Sulle note di questo brano saluto Francesco Piu e i lettori di Sa Scena, “Keepin’ the blues alive”, sostenete la musica live e comprate i dischi!