«To choose time is to save time». Parola di sir Francis Bacon. E i Super Wizard sembra quasi che l’abbiano scelto, “the time”. Il quartetto cagliaritano nasce infatti due anni fa, giusto il tempo di assaggiare insieme un po’ della vecchia normalità e dedicarsi fin da subito alla produzione di brani originali. E ora che i concerti, seppur con tante incertezze, stanno riprendendo, Diego Milia, Rubens Massidda, Alessio Pirina e Frank Stara, decidono di calcare i palchi in concomitanza con l’uscita del loro omonimo esordio (segniamoci la data dell’8 agosto).
Ma il tempo scelto non è solo quello relativo alla formazione e al debut album. Il tempo scelto è soprattutto quello dei seventies, decennio dal quale partire per forgiare il loro amalgama sonoro. I nostri sfornano così un disco contenente otto brani di rock sudato e irrorato da un vecchio macerato, filtrato però qualche decennio dopo.
A un primo ascolto non si possono infatti ignorare le lezioni apprese alla scuola dei Black Crowes: Già dalla prima traccia, l’articolata “(Good Ol’) Rebel (on a Dusty Trail)”.
Il viaggio prosegue con “The Four Winds of the Seven Seas”, con tanto di armonica e tastiere, entrambe suonate dal cantante e polistrumentista Diego (dedito a deliziarci lungo tutto l’album con tutta una serie di cordofoni e fiati).
“Rattlesnake Blues”, terza traccia, è un mid tempo tra l’incidere profondo e l’incedere corrosivo che brucia pelle, gola e narici.
“Cactus_A Merry-Go-Round”, con i suoi cambi di registro, si presenta come una delle colonne portanti dell’album: inizio faticoso, tra il sudato e desertico, dove giusto un cactus può attecchire presentandosi chimera ai nostri occhi; proseguimento hard blues con innalzamento progressivo di tonalità che ci fa iniziare a toccare con mano quanto emerge dal vortice sonoro dei nostri; ritornello e coda solari che si impadroniscono del nostro udito (e del nostro piede).
Lo spettacolo prosegue con l’articolata “In The Mist of the Bayou”, mentre “Back on Rockin’” ci riporta al sapore ambrato delle vecchie rock ballad.
Giusto il tempo di un bluegrass (la penultima “Through the Prairie”) allo scadere per poi riprendere con le vibrazioni rock di “Ridin’ the Highway” dove l’intro sabbathiana si scioglie non solo nelle sonorità, ma persino nell’immaginario on the road americano. Ma nulla ci vieta di concepirla come colonna sonora del tratto conclusivo di un nostro viaggio sulla 131.
Nel complesso il quartetto propone un disco ben composto e ben prodotto: un rock genuino maturato nel rovere della passione (e della pandemia) dove spicca la puntuale sezione ritmica di Alessio (basso) e Frank (batteria), la voce roca di Diego, i riff gli assoli e le armonie della sei corde di Rubens.
Passato e presente in moto gli ingredienti essenziali del rituale rock che non ha bisogno del proscenio dell’Eurovision per dimostrare la sua longevità mai senile.
E se Bacon rimanda anche al salume, è anche vero che qui amiamo dire che «b’at prus tempus chi non sartitza». Il tempo, per concludere con lui così come abbiamo iniziato, è maestro: prende tutto e tutto da. In bon’ora Super Wizard.