Copertina del disco omonimo dei Sunfair

Sunfair

Francesco Bustio DettoriMusica, Recensioni

Correva l’anno 2022 e, mentre mezzo mondo si apprestava a celebrare le festività natalizie in un tripudio di canzoni di Mariah Carey, Wham e Michael Bublè, l’altra metà cercava di evitarlo idiosincraticamente. In mezzo a questo delirio di contrapposizioni, usciva North, il bel singolo dei sassaresi . I cinque componenti (Fabio Demontis, Marco Appioli, Marco Usai, Pierluigi Cozzula, Stefano Campus) risultavano essere noti al seggio: la precedente incarnazione del gruppo portava il nome di , autori di due album caratterizzati da un post rock arpeggiato e atmosferico.

Dopo la pubblicazione di North, la band turritana è scivolata in un lungo sonno, durato più o meno un’orbita terrestre attorno al sole: il 29 dicembre, mentre le fazioni in campo pro e contro il Natale cercavano ancora una volta una tregua riconciliante in nome della notte di San Silvestro, i Sunfair improvvisamente fanno apparire su tutte le piattaforme il loro disco omonimo (etichetta Oh!Dear Records), composto da 8 tracce che vede le già note dissonanze di North ad aprire le danze.

Lo snocciolarsi dei brani, uno dietro l’altro, permette all’ascoltatore un piccolo viaggio attraverso mondi diversi, ma collegati da lembi di suono: si va dalle aure estatiche di Sulfur ai paesaggi che scorrono veloci attraverso i finestrini di una macchina in Summer, per planare poi sull’ossessività di Bent e sugli ambienti desertici di Cursed. Arrows rappresenta forse il momento più alto di tutto l’album, con il suo sapiente intreccio di calma apparente ed esplosioni fragorose, e prepara la strada all’incedere saltabeccante di Helvetet e agli orizzonti rarefatti di South, che chiude il tragitto come un tramonto freddo.

Sunfair è un disco che vive di atmosfere e sensazioni, che può piacere molto a chi ama gli American Football e i Mogwai: convivono assieme una certa attitudine figlia degli anni ’90 e varie incarnazioni shoegaze e post-rock. Le chitarre appaiono capaci di accarezzare e, allo stesso tempo, offendere, mentre le armonie vocali trovano la giusta spazialità in un cantato che appare spesso più vicino a un racconto confidenziale. Appare non banale la ricerca di suoni, armonie, ritmiche che coinvolgano l’ascoltatore facendolo sentire parte di un universo alternativo. Tale sforzo è premiato da un lavoro di autoproduzione in studio (mastering a cura di )  che mette ben in luce la volontà della band di creare un qualcosa di ispirato e con un sound assolutamente attuale, e che meriterebbe una notorietà maggiore.