Stefano Guzzetti – Onda 001006 – Quiet Departures

Claudio LoiMusica, Recensioni

sembra avere un conto in sospeso con il tempo, con quella strana cosa che ci passa davanti e non riusciamo a definire, a fermare, a capire. La sua storia artistica è una lunga serie di fughe in avanti e di imprevisti ritorni: riesce a passare indenne dalla classicità post contemporanea del new classical al gioioso synth pop delle Lilies On Mars, dal rock autoriale degli Antennah alle sperimentazioni ambient di questo nuovo lavoro. Potremo definire questa continua transumanza come nostalgia del futuro (come suggeriva tanti anni fa David Toop), angoscia del tempo presente, oppure semplice voglia di non chiudersi in una gabbia troppo stretta e limitante. Quello che colpisce è in ogni caso la capacità di essere sempre nel posto giusto al momento giusto, riuscire a cogliere la vera essenza di un progetto e affrontarlo con maniacale partecipazione, nella cura dei dettagli e con una costante melancholia di fondo che proviene da riflessioni, studi, conoscenza e uno spleen esistenziale che arriva dritto dai famigerati anni Ottanta (che Guzzetti ha sempre amato). 

Il nuovo lavoro – Quiet Departures che fa parte di un progetto più ampio, una nuova serie chiamata ‘onda’, si inserisce alla perfezione in questo straniante loop emotivo in quanto segna, a suo dire, un ritorno a vecchie passioni, a macchine che un tempo erano fantascienza e ora rischiano di diventare oggetti da cabinet of curiosity o pezzi da museo. Una presa di posizione che non è solo tecnica e meccanica, ma appare piuttosto come precisa voglia di abbandonare (almeno per il momento e non si sa per quanto…) la fredda e liquida incostanza del digitale, di una realtà che ha “il colore della televisione, sintonizzata su un canale morto”. Guzzetti affonda le mani nella materia, accarezza i tasti del pianoforte in modo discreto e poco invadente, collega cavi e spinotti, lavora con la stessa applicazione di un artigiano di antica rimembranza, ormai scomparsa dai nostri radar e che sembra qui riprendere vita. Quiet Departures rappresenta un rewind, una ripartenza soffice, un nuovo viaggio verso il tempo perduto e forse ritrovato. Siamo sempre nei cari e accoglienti territori dell’ambient più classica, ma in queste tracce emerge anche una tangibile esperienza sensoriale che raramente affiora in questi scenari: le macchine sono ancora vive, emanano suoni e calore, respirano, soffrono e i loro suoni rimandano ad altri livelli temporali. Sotto la polvere del tempo affiorano vecchie storie, ricordi appassiti ma pronti a germogliare: una sorta di archeologia del futuro che ci rimbalza in una dimensione difficile da descrivere dalla quale emergono tante esperienze, qualcuna vissuta, altre solo sognate. 

Sono i mondi che aveva ipotizzato William Gibson e in questo frangente mi vengono in aiuto le parole che Valerio Mattioli ha usato per descrivere un futuro non troppo distante, a sua volta prese in prestito da Regina Borg in Star Trek: “Stiamo venendo a riconfigurare i tuoi neuroni, Stiamo venendo a sostituire alla carne il silicio, stiamo venendo a cromare i tuoi arti, a convertirti, a rimpiazzarti…”. Un monito, un grido di allarme a cui non possiamo restare indifferenti per provare a disegnare un mondo nuovo, un luogo possibile, una nuova forma di vita anche grazie alla musica. Guzzetti sembra andare in questa direzione, sente che qualcosa va corretto, che la realtà ha preso una piega di terribile involuzione e ci riflette. Credo che il senso di fare arte oggi sia proprio questo.

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