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Nave Madre – SIKI

Luca GarauMusica, Recensioni

Il nome è tutto. È ciò con cui ci si presenta all’esterno e, spesso, anche a se stessi, al pari della propria immagine e del proprio look. Qualcuno è arrivato a dire, addirittura, che le cose esistono e si possiedono solo come nudi nomi. Ora, senza pretesa alcuna di entrare nell’antica disputa, è pacifico che un cambiamento è un fatto e come tale sottintende qualcosa: di accaduto o di auspicato. Per i SIKI, la sensazione è la seconda. Il mutamento è portatore di aspettative, di cambi di rotta.

E, coerentemente, quale titolo migliore di Nave madre per un album che vuole essere un varo, l’inizio di un viaggio che si prospetta lungo. Pubblicato coraggiosamente solo in formato fisico – un bel vinile rosa – senza cedere alla tentazione delle piattaforme musicali, è un album con una direzione chiara e predefinita: bussola in mano si naviga con la prua verso il pop, nel significato più ampio e più bello.

La composizione pare il risultato di un’indagine di mercato che, sacrificando l’istintività, ha determinato il posizionamento del prodotto. È molto personale e personalizzata, ma ascoltando le tracce, oltre l’asserita passione per “il vintage e i dischi mono registrati in garage” si scorgono ammiccamenti verso l’incoscienza e la leggerezza che il pubblico odierno sembra apprezzare. Stesso dicasi per la produzione. I suoni sono quelli del 2019: ci sono i synth, c’è la 808, c’è il vocoder e forse qualche pizzico di autotune. In tutto questo chi si distingue è Jimi, che, qualsiasi sia la cornice, riesce a suonare, lapalissianamente, come suona Jimi, con quel suono grosso e fuzzoso che da sempre lo identifica.

Qui comunque abbiamo a che fare con gente di stile e il dosaggio degli ingredienti è eccellente. Il risultato, a parte qualche assonanza con Machete, trap o quello che oscenamente viene definito indie pop, fa trasparire richiami alla black music, alla french touch, al tropicalismo, con un costante riferimento alle positive eccezioni del cantautorato italiano post anni zero. Appare studiata con questo approccio anche la tracklist, che scivola via leggera e organica. Diablo e compagni sono maestri nel ricreare, traccia dopo traccia, quel sapore agrodolce che ricorda il magone di fine estate che si prova a guardare l’ultimo tramonto di settembre, ma col negroni ancora pieno. Da Io sto bene a Mi manca qualcosa, tutto è all’insegna di una scanzonata malinconia, intervallata – o amplificata – dalla psichedelia dei due interludi.

È un disco perfettamente confezionato, che non lascia spazio all’approssimazione. Del resto il nome a una sola direzione, a differenza del palindromo, non consente di effettuare inversioni repentine. Pertanto ben venga il lavoro di design musicale fatto dai per Nave madre, ché per affrontare un viaggio, occorre avere idee chiare, carte aggiornate e l’equipaggio giusto.

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