L’ultima volta che ho visto SARRAM dal vivo risale al 24 giugno di questo 2023 alle pendici del Monte Arci. La sua esibizione per chitarra elettrificata e manipolazioni elettroniche era sovrastata dai volumi molto invadenti di un gruppo hardcore punk alla sua destra e da un devastante frastuono di techno-dub alla sua sinistra. Non certo il massimo per un set costruito su minime variazioni cromatiche, eseguito con un’attenzione maniacale ai particolari del suono e alle sue sfumature, attento alle minime variazioni tonali e a sussurri elettronici appena percettibili. Ma lui non si è scomposto e ha suonato con la massima concentrazione e chissà che quel wall of sound non sia stato persino fonte di ispirazione e stimolo nel cercare una terza via, una nuova dimensione estetica. Forse è quello che Valerio Marras intende con “imparare attraverso il dolore” che dovrebbe essere la versione in italiano for dummies di Pàthei Mathos un concetto preso in prestito dall’Agamennone di Eschilo. Un pensiero positivo che aiuta a trovare nel buio la luce e riuscire a sopravvivere anche nelle situazioni più estreme, come quando sei sovrastato dal frastuono più atroce.
Il quinto disco di SARRAM si presenta quindi come un sussidiario di resistenza e adattamento alle persone e alle loro strane abitudini, una medicina naturale per alleviare i tormenti del quotidiano e sorridere quando la nave affonda, una risata sardonica che rimane ultima manifestazione di un universo in dissolvenza. In realtà Valerio Marras ci tiene a chiarire che questo “non è un disco triste, è una serenata”, una dichiarazione che appare in linea con la sua precedente produzione e con il suo modo di essere artista e performer che, come dicevo prima, è molto attento ai particolari, alle pieghe nascoste delle cose, a un mondo che bisogna cercare e svelare con stoica e paziente predisposizione. Eppure questo disco appare più cattivo del solito, potrei dire anche più rock utilizzando questo termine per identificare un approccio estetico selvaggio, diretto, senza troppe revisioni e missaggi in post-produzione. In effetti l’album è in perfetto SARRAM style, con momenti di tranquilla estasi e minimalismo narcolettico, quelle serenate elettroniche a cui si faceva riferimento prima. Ma la sorpresa arriva con i brani più duri e rabbiosi e la chitarra che rilascia vortici di suono e scosse ad alta gradazione elettrica a cui non eravamo abituati. È possibile che in questa strana e inedita rabbia abbia influito la partecipazione di creature delle tenebre poco inclini alla mediazione come Lili Refrain (direttamente dalla Subsound Records), Dalila Kayros, perfetta nel calarsi nei meandri oscuri di questo progetto, il violoncello deformato di Tobias Vethake, teutonico e monolitico conosciuto anche come Sicker Man.
Un album votato alla ricerca e alla sperimentazione, pensato e realizzato quasi in tempo reale con un approccio che rimanda a lontane esperienze di improvvisazione radicale e allo stesso tempo un progetto che richiama le nuove frontiere della musica contemporanea. Proprio per questa natura bipolare siamo di fronte a un lavoro inafferrabile e imprevedibile che rende difficile ipotizzare pronostici sulle future mosse. Poco importa, quel che conta è avere a disposizione un progetto che guarda lontano, che va oltre grazie a un instancabile lavoro sui suoni e sulle atmosfere, che apre nuove prospettive. Musica post-ambient che si affranca dal genere e si immerge nella vita vissuta, in quella realtà che talvolta la filosofia ambient tende a modificare e rendere più commestibile. Pàthei Màthos non è il sedativo che ci trasborda in un’altra dimensione ma una finestra aperta sul quel cortile che non possiamo ignorare. Una finestra dal quale è possibile intravedere il sorriso delle nuvole, un arcobaleno in un cielo ricurvo, la calma prima e dopo la tempesta e “fluttuare insieme in enormi ondate di suono”.