11, 12 e 13 Luglio 2024
Nell’estate del 2004 mi sono diplomato presso il liceo cagliaritano “Giovanni Siotto Pintor”. Non avrei mai pensato di ritrovarmi vent’anni più tardi a ritirare un accredito stampa per raccontare un festival che si sarebbe tenuto a Villa Siotto (Pintor) a Sarroch. A titolo di cronaca la Villa è soprattutto opera di Giuseppe Siotto Pintor, quello della fondazione omonima con sede nel quartiere Castello a Cagliari, mentre il Liceo è dedicato al fratello Giovanni. Villa Siotto, nello specifico la pertinenza con giardino antistante su cui si staglia il bellissimo edificio di inizio ‘900, è un palcoscenico di grande impatto quando si arriva dal breve serpentone che collega la vicina Piazza Repubblica con il giardino. La magione è un edificio imponente, che ha delle vibes alla Dario Argento ma tutto sommato in modo innocuo. Nella corte antistante si trova il palco, a cui la facciata di stile neoclassico razionalista fungerà, nell’addentrarsi della serata, da gigantesco schermo su cui verrà proiettato il gioco di luci e colori del concerto.
Sebbene il mio corso e ricorso storico tra villa e Liceo sia abbastanza debole e troppo personale, il caso di uno degli artisti coinvolti è al contrario un collegamento dal forte impatto emotivo. Pier, opener della seconda serata, dopo la sua esibizione mi racconta mentre è al suo stand di come abbia vissuto un’emozione forte stando sul palco della città in cui è nato. In un contesto in cui ha mosso i primi passi, non solo come musicista ma come persona sin dall’infanzia. Ritrovarsi, da musicista che vive all’estero, ospite in cartellone in un festival che si tiene in uno dei suoi luoghi della memoria, è una sensazione che gli scalda il cuore. Anche perché la Diapason School e Sara, cantante degli Elaphi, erano presenti all’evento: la prima in qualità di co-organizzatore insieme al MIS, l’altra come chitarrista di accompagnamento della band di Pier. Lo stesso Pierfrancesco mi conferma come sia stato un allievo della scuola Diapason e che, ancora prima, sia stata proprio Sara a insegnargli i primi accordi e come posizionare le dita sulla tastiera della chitarra. La lezione, come avevo intuito ascoltato il suo interessante esordio, era servita e in sede live i suoni di Pier acquistano ancora più energia e forza, arricchendosi di vibrazioni e riverberi più massicci e accattivanti, in una dimensione – quella live – che valorizza i talenti musicali.
Il contesto del palco spesso funge da cartina tornasole della bravura di un artista o gruppo. Non ci sono effetti, rielaborazioni, postproduzioni o acrobazie del marketing che possano modificare l’impressione che lo spettatore riceve da quello che succede sul palco. Il concerto è l’Alessandro Borghese della musica: può darti voto diesci o può ribaltare il risultato pregresso. E, viceversa, un disco che in studio è meno entusiasmante, dal vivo molto spesso acquista una forza maggiore, basata su vari fattori. Facendo un passo indietro e tornando a giovedì 11 luglio, l’apertura dell’intero festival è affidata alla sopra menzionata Sara e ai suoi Elaphi, altro gruppo che dalle pagine di Sa Scena è approdato sul cartellone di Sa*Rock, proponendo il loro alternative rock, con innesti elettronici e serenate dream pop.
Il senso di comunione, in un concerto, si riflette anche nel coinvolgimento del pubblico. Nel caso dei Gazebo Penguins, ad esempio, chi era sotto al palco era lì per loro. Il gruppo di Correggio (che con i fratelli Ligabue condivide solo la cittadinanza, ma non la notorietà) è nato nel 2004, con gli stessi desideri, rabbia e sogni di una generazione di freschi maggiorenni che si risvegliavano dalle macerie dei fatti di Genova e del berlusconismo e avevano solo un’esigenza: quella di urlare propria rabbia e volerla mettere sotto contratto, per parafrasare Maccio Capatonda. Erano gli anni dell’epoca d’oro del post hardcore, emo-core e screamo, di cui l’Italia è stata una colonna importante e non una colonia secondaria, rispetto ad altre nazioni. Esponenti come i La Quiete, Gazebo Penguins, Fine Before You Came, Death of Anna Karina sono rimasti dentro le ferite emozionali degli stessi che, vent’anni dopo, erano sotto il palco e fare sfoggio di quelle divenute cicatrici, ostentate con orgoglio. E non erano lì tanto per quelle sonorità, che sono di casa e resistono ancora oggi grazie a band isolane come Vilma e Quercia, quanto per rivivere e rielaborare le canzoni, urlandole e pogando sotto il palco. Lo stesso palco su cui, a breve distanza, si sono esibiti i Tre Allegri Ragazzi Morti, che ormai di ragazzi hanno solo il nome d’arte. Davide Toffolo, sardo pellita per l’occasione, alterna i pezzi che attraversano tutta la carriera che, rispetto ai Gazebo, è cominciata dieci anni prima e ha vissuto diverse fasi, da quella tardo-adolescenziale all’ultima virata in ambito reggae-cumbia di cui il cantante dal volto celato dal teschio è estimatore, grazie anche alla sua spirituale reggenza dell’Istituto Italiano de Cumbia.
Il secondo giorno Pier, nel corso della propria piacevole esibizione, ha portato il tema della Palestina sul palco con un pezzo inedito, dimostrando un forte atto di politica unita alla musica. Subito dopo lo spazio è stato riempito dallo psychobilly blues sghembo e alcolico dei South Sardinian Scum. Tra sonorità che ricordano un mix tra Dead Kennedys, The Cramps e il delta blues, la band capitanata da Giampiero Giampy Guttuso trasforma il set in un gigantesco fienile del sud degli Stati Uniti durante la Grande depressione. Giampy, con la sua voce raschiata e velenosa, sbraita e violenta il microfono senza accennare a fermarsi, in un infuocato rock n’roll sporco e volutamente southern. Giampy è alto e indossa una salopette, una versione antropomorfa del Big Bad Wolf dei Looney Tunes, ingobbito, feroce, allucinato e con dei toni che ricordano Tom Waits e altri cantanti abituati a curarsi la voce con il moonshine.
A intervallare l’ondata di blues che, in realtà sarà uno più uno tsunami, si presenterà più tardi con Fantastic Negrito, il pubblico è stato ipnotizzato dalle divagazioni elettroniche di S A R R A M . Valerio Marras, che con il suo Pàthei Màthos è fresco vincitore del premio Mario Cervo, è l’antitesi dei South Sardinan Scum. Suona da solo, con una piattaforma costruita da effetti, synth, loops, pedaliere e suoni del transumanesimo, in spirali distorte che catturano e ammutoliscono il pubblico. Le sue distorsioni e variazioni sul tema che Claudio Loi, sul nostro sito, ha sintetizzato in «Musica post-ambient che si affranca dal genere e si immerge nella vita vissuta, in quella realtà che talvolta la filosofia ambient tende a modificare e rendere più commestibile. […] un arcobaleno in un cielo ricurvo, la calma prima e dopo la tempesta e “fluttuare insieme in enormi ondate di suono». Perché quello che ho potuto osservare, in una posizione laterale, quasi nel backstage, è stato il clima di comunione spirituale degli spettatori, che erano quasi frastornati ma curiosi di capire come venissero fabbricati dei suoni che non erano preconfigurabili a livello mentale da parte dello spettatore.
Il tempo di rinsavire da questo annichilimento sonoro che ne sopraggiunge un altro, molto più potente e coinvolgente. Fantastic Negrito e la sua band è LA punta di diamante sul cartellone, il nome che richiama tanti, in maniera trasversale per età e che fossero addetti ai lavori, musicisti, appassionati o sporadici frequentatori di concerti. Mister Fantastic mi ha provocato un’epifania visionaria, ricordandomi un personaggio dei film di James Bond che, da bambino, mi aveva turbato parecchio. Mio padre è un appassionato dei vecchi film di 007 e nel capitolo del 1973 Live and Let Die (Vivi e lascia morire), l’henchman del villain di turno era un inquietantissimo e ipnotico capo di un culto Voodoo che si presentava come la reincarnazione del Baron Samedi. Il suo look e il modo in cui emanava una spietata aura messianica, tra ritmi caraibici e notti alterate da alcool e superstizione, avevano lo stesso magnetismo che Negrito ha saputo portare sul palco. Quello che cambia è, semmai, la certezza che non si tratti di un’entità malvagia, quanto di una versione blues di un Legba, il demone voodoo dei crocicchi. Ma allo stesso tempo è uno stregone caraibico, un seduttore che compie un’opera di isteria gospel, di viscerale opera di esorcismo da parte di una reincarnazione di James Brown e dei vari reverendi che hanno contribuito a definire la black music nella sua componente soul. Negrito colpisce anche per il modo in cui alterna parti graffianti da Robert Plant (se avete presente Immigration Song, sapete a cosa mi riferisco), con gorgoglii profondi, acuti e vibrati che cambiano grazie al potente registro di cui dispone. “I’ve got a devil in my pocket, that drives me crazy” – un diavolo che ogni tanto sbuca e viene prontamente ricacciato in tasca – canta mentre si disinteressa di rispettare quel timer che l’organizzazione ha posto a lato palco per non sforare. Fantastic è stato l’unico a non tenerne conto, forse perché in quanto stregone, che forse ha mille vite e non ne ha nessuna, è indifferente al concetto di tempo. La sua esibizione, personalmente, resta una delle più sanguigne, roventi e palpitanti a cui abbia mai assistito, regalandomi la suggestione che sia di un’altra epoca, piombato dagli anni ‘60 al 2024 attraverso qualche tunnel spazio temporale. Carlos Santana diceva, nella propria autobiografia, che il blues, se non sai suonarlo, non hai il diritto di farlo. Puoi impararlo, di sicuro, ma se vuoi suonare veramente il blues devi esser disposto a calarti nel profondo del tuo cuore e scavare. E mr Xavier Amin Dphrepaulezz, nato a Oakland nel 1968, è nato con la pala in mano.
La terza serata, quella gratuita e conclusiva, è incentrata sul punk nelle sue diramazioni. Il Big Bad Wolf torna sul palco, anche stavolta dietro un microfono, ma con i Gods Of Gamble, storica formazione punk dura e pura cagliaritana. Il loro stile è conosciuto, rabbioso e picchia come al solito, iniziando a scaldare la serata mentre il pubblico si rinfresca con birra e street food (di qualità, c’è da sottolinearlo, perché è un altro punto di riuscita del festival). Dopo i GOG è il turno di un gruppo che aspettavo con curiosità. Sono stati prodotti da Alain Johannes e hanno collaborato con Mark Lanegan, mentre il loro nome rispecchia la loro attitudine sul palco. I The Devils sono duo campano, batteria e chitarra, protagonista di uno show in cui buona parte era unscripted, così come dovrebbe essere un’esibizione rock. Un gigachad con dei basettoni monumentali, armato di Gibson SG standard (la diavoletto), che macinava riff rock n roll e proto-punk, frenetici e che letteralmente addentava il microfono e ci cantava tenendolo nella bocca come la famosa signora mangia microfoni di un giorno in pretura. Gianni Blacula, voce e chitarra, cantava e lo lanciava via, mentre continuava a produrre accordi e assoli, barcamenandosi in riff luciferini mentre la sua socia, Elena Switchblade, picchiava senza sosta e cantava ininterrottamente. Un duo che consiglio assolutamente di vedere dal vivo perché divertenti, genuini e seducenti, soprattutto per il modo in cui la sezione ritmica – un incrocio di punk hc, rumble tumble southern alla creedence e stoner – dialoga con la chitarra e il cantato furibondo tra Bikini Kill, Amy & the Sniffers e garage rock. Il terzo gruppo erano i The Subways, combo britannico al loro esordio in Sardegna, che hanno proposto punk-rock melodico con una forte matrice brit che non dispiacerebbe agli amanti dei primi Arctic Monkeys. Se i The Devils hanno ridotto le interazioni con il pubblico, concentrandosi sulla loro esibizione selvaggia, i The Subaways hanno speso molto tempo a parlare con il pubblico, sforzandosi di raccontare in italiano con accento inglese la maggior parte dei pezzi al momento dell’annuncio. Per un parere esclusivamente personale, non sono un amante del gruppo che vuole dialogare a lungo col pubblico, a meno che non ne abbia una certa capacità oratoria-comica e non sia tradito dall’emozione. Nel caso dei Subways c’era forse un desiderio troppo evidente di farsi apprezzare, ma non era il caso perché la loro esibizione sarebbe stata sufficiente a garantire gli applausi.
Cosa possiamo dire di questi tre giorni a Villa Siotto? Innanzitutto che il Made Island Sound e Diapason School hanno fatto un lavoro egregio sotto ogni aspetto, compresa l’idea di mettere a disposizione un distributore di acqua libera per tutti. Non c’era traccia di token, c’era anche un’alternativa tra posti a sedere, sotto gli alberi e al fresco, che ha permesso la presenza anche di coppie con i bambini armati di cuffioni sempre troppo grandi per le loro teste. Il djset curato da Miss MaryLight è stato azzeccato e ha regalato qualche perla entusiasmante (almeno per me, che adoro un pezzo come Doused dei DIIV e altri che non ricordo, ma che mi erano piaciuti). Sa*Rock alla sua terza edizione si conferma un festival di nicchia, ma solo per la selezione della proposta e non certo per la volontà di escludere determinate categorie di partecipanti, Il pubblico era variegato e l’atmosfera inclusiva ha contribuito al successo delle serate. Quello che resta da fare è aspettare la quarta edizione, con il sentore che il Sa*Rock si potrà proporre come un appuntamento importante, con nomi attrattivi e delle serate coinvolgenti.