Ci sono musiche il cui ascolto è capace di evocare luoghi, culture e tradizioni. Questo succede perché in passato queste musiche hanno ben rappresentato la realtà di quei luoghi. Ma spesso accade che a un certo punto non siano più in grado di farlo.
È un fenomeno abbastanza normale: i tempi cambiano, le mutazioni sociali si susseguono e la musica si trova a doverle rincorrere. È questa la ragione principale per cui certi musicisti, bontà loro, si adoperano per trovare nuove chiavi di lettura, formule differenti che rivitalizzino quelle che tradizionalmente, e anche per consuetudine, sono le musiche cosiddette identitarie. Ma è un processo che deve scontrarsi con tante difficoltà e solo pochi arrivano a dei risultati meritori di nota.
In S’Ardicity dei Malasorti questo piccolo prodigio di sintesi e, al contempo, di allargamento sembrerebbe essersi compiuto in qualche modo. Il primo – e unico – EP uscito a fine 2013 conteneva già i semi di quello che sarebbe stato il seguito e creava non poche aspettative rispetto a qualcosa di più organico.
Queste non sono state deluse e il primo importante risultato raggiunto, forse emblematico del processo creativo, è l’equilibrio tra una forte amalgama del gruppo e una spiccata autonomia dei singoli, che all’interno del progetto continuano a vivere, fortunatamente, di vita propria.
Gli anni di esperienza sui palchi di mezza Sardegna da parte di Lele Pittoni e di Francesco Bachis, ex-voce ed ex-tromba dei gloriosi Ratapignata, danno un’incredibile fluidità ai brani, mentre i tappeti sonori e le ritmiche di Francesco Medda, aka Arrogalla, gli danno spinta e corpo.
La chiave espressiva delle atmosfere di un certo sud Sardegna trovata dai tre, suona assolutamente ben rappresentativa del tempo e dello spazio di cui parla. Come se i testi e il cantato di Pittoni, seppur di chiara estrazione caraibica, sposassero perfettamente le istanze di un background culturale e artistico fatto di piccoli paesi, edifici lasciati a metà, distese di campi secchi, pomeriggi assolati, bar di paese e tanta lentezza.
Come se a voler trovare una voce a quei non luoghi, ecco, quella potrebbe fare al caso loro. Una voce per certi versi accostabile alla nasalità e alle melodie tipiche del canto tradizionale campidanese, così vicine al nord-africa e ai mille canti di tutto il mediterraneo, sefarditi, berberi o balcanici che siano. E neanche troppo distanti da tanti altri sud del mondo, come testimoniano i perfetti innesti caraibici, centrafricani o di cumbia colombiana.
Tutto magistralmente orchestrato dalle mani di Arrogalla, che sintetizzano questo campionario di umanità musicale riuscendo a trovare una collocazione mai ridondante anche a elementi tradizionali, come il canto in Mala manera, i campanacci in Su fogu o sa trunfa in Tropu po mei.
In un dub che si scrolla bene di dosso l’ingombrante presenza del reggae per aprirsi felicemente a tante altre possibilità, più o meno elettroniche, trovano spazio anche le incursioni sonore della tromba di Bachis, più libero di osare e sperimentare che in passato e, forse per questo, perfettamente a suo agio nel progetto.
Il lavoro fatto sembra, anche in ragione di ciò, più che uno scientifico lavoro di sintesi, una inevitabile “fusione” di tutto quello che da quel punto è possibile osservare tutt’intorno: l’approdo approssimativo, nel senso di non finito e non definito, di un processo spontaneo di assimilazione dell’aria respirata, degli sguardi incrociati per strada, degli odori della campagna, dei colori osservati dai finestrini del treno. Questo sembra voler trasparire anche dalle storie raccontate da Pittoni, filastrocche alleggerite dal peso della parola che ben si fondono all’interno di brani dai risvolti talvolta oscuri ma comunque sempre genuini, quasi naturali.
S’Ardicity è un disco glocal che, pur mantenendo un forte legame con la dimensione locale, nella sua internazionalità figura molto più world di tanti lavori di ben altro blasone. Inoltre suona bene, fa ballare, cosa rara di questi tempi, ed emana positività senza cadere nel retorico e senza perdere il contatto con una realtà plurale che di tutto ha bisogno oggi fuorché di distacco.