I Dirty Hands sono una delle creature blues sarde più selvagge e Revolution Chair è il loro ultimo lavoro di studio.Pescando dalla tradizione di Chicago si spingono attraverso diverse strade fino al proto metal dei Black Sabbath. Una via già percorsa da gente come Popa Chubby, che arriva da Hendrix per regalarci quel blues granitico che sa di hard rock.
Su Do You Remember l’armonica blues è in primo piano mentre la durezza e gli assoli delle chitarre sono gli ingredienti di contorno. Il cantato di Willy Boy Taxi è ruvido, spesso cadenzato, da vecchio crooner.
I Dirty Hands comunque sanno spaziare e sono a loro agio anche con il rock and roll. La title track e Taxi Blues sono dei frenetici rockabilly anche se con un retrogusto sleazy. Questo diventa prepotente in Three Little Beers e Two Sisters.
Road to Hell riprende l’intro di Ramble On degli Zep e ne fa una canzone che strizza l’occhio agli anni novanta: i Soundgarden come punto di riferimento, ma sempre con degli intagli profondi di armonica blues. Sa di novanta ma anche di vecchio soul la uggiosa Searchin’ the Blues.
In When All Your City is Dry calano le intenzioni belliche e si ingaggia una piccola orchestra di fiati per una malinconica ma sognante ballata.

Francesco Nieddu, Valter Spada, Willy Boy e Tommaso Pintori hanno creato un lavoro che diverte e si fa ascoltare. La produzione è equilibrata e non eccessiva.
I Dirty Hands hanno dato un bell’esempio di come si può creare un prodotto artigianale, senza grossi proclami, senza grandi ambizioni ma con personalità.
Certo, in questi ambiti trovare la completa originalità della formula diventa difficile ma la freschezza delle composizioni rende il prodotto gradevole e il risultato è sicuramente assicurato anche dal vivo dove la band riesce a regalare bei momenti di rock blues.