Lo avevamo lasciato all’interno di un’ala dell’ex Villaggio Eni, Dario Licciardi in arte Alek Hidell, tra manopole analogiche e lampadari avveniristici. Già allora, la sensazione più diffusa fu che, effettivamente, quel tappeto – musicale leggasi – “dava tutto un altro tono all’ambiente“, non ce ne vogliano gli architetti Scarpa e Gellner. Arriva, quindi, dopo una ragionata gestazione di sei anni, il primo nato in casa Hidell, quel Ravot che appare come una pellicola sovraesposta che si rivela ad ogni ascolto. In base al punto luce, ne emergono le tessiture melodiche, riorganizzate attraverso i sensi per richiamare associazioni dal proprio vissuto, siano esse rappresentate da un paesaggio dal fascino drammatico (come le miniere di Buggerru), o un ricordo che pensavamo andato perso (come la morte di due bambini colpiti da un ordigno bellico).
Ravot ha, di fatto, questo piccolo grande pregio: di arrivare raffinato all’ascolto ma primitivo nell’essenza, con un caleidoscopio di immagini di rara ampiezza.
Il mare e la sabbia ambrata al tramonto della costa sulcitana sono l’elemento narrante della vicenda, un’onda artefatta che si solleva fino a portar via con sé la spensieratezza dell’infanzia di quel giorno sul porto, lasciando una cicatrice vivida nell’identità del villaggio di pescatori e minatori.
La voce è quella delle mani sui bottoni di Hidell, compositore completo non a caso incluso da Incani in quella grande idea di musica che andava maturando in Trovarobato (se, per Ondarock, Firinu e Angeli erano stati l’apporto etnico di DIE, Hidell ne fu “il tocco elettronico“).
Si parte con le coreografie aborigene di Yolk e poi Dinghy, il pezzo più danzereccio del disco, a tratti ammiccante alla synthwave daftpunkiana (o “alla Moroder“, per i puristi), chiuso da un confuso vociare paesano e seguito dai versi umanoidi di WOM, una cantilena infantile che apre alla seconda parte dell’album, più sensoriale e retrospettiva.
Non mancano, in linea con la scuola buggerraia, le citazioni alla composizione made in italy, come al prog anni 70, e al cantautorato indie retro-moderno.
MOTHERLAND, ad esempio, suona con la leggerezza combinata a eleganza delle colonne sonore scritte da Morricone per Verdone, mentre è più facile ritrovare il sound cinematico alla Umiliani&Piccioni, in SPOONS.
BLO, poi, con i suoi archi e arpeggi di synth, è una strumentale strappata a una hit di cantautorato indie, che potrebbe essere uscita da una discografia matura, come quella dei Baustelle più malinconici.
L’impronta su kodachrome alla McCurry è data, infine, da TORPEDO, ritratto del volto del bambino che osserva la schiena del siluro terra-acqua riaffiorare dal pelo del mare, un pezzo che vive di diversi momenti ben calibrati dal breakbeat delle percussioni, che si gonfiano alla ripresa del tema ritmico, creando un senso di tensione e consapevolezza del dramma.
Il topos sonoro ricorrente di Ravot è la melodia narrante, falsamente rassicurante, dei synth, che cambiano forma in continuazione come sussulti durante un sogno lucido, quasi a volerci portare forzatamente fuori dalla dimensione onirica, con la sensazione di trovarsi in un posto diverso al risveglio.
Uno sguardo tutto intorno, bagliori di luce che pungono le palpebre – forse i fuochi di Santa Barbara davanti alla laveria della vecchia miniera alle spalle del porto – e una reminiscenza della melodia cadenzata di Ravot che ronza ancora nelle orecchie, assieme alla sensazione di un ricordo amaro riemerso dal passato. Siamo, di nuovo, desti (o forse no?).