Il racconto della ventiseiesima edizione del festival
Fotografie di Daniele Fadda
Isole che parlano non è un festival come tutti gli altri, lo abbiamo ripetuto tante volte, ma ogni anno riesce a mostrare altri lati di sé e a fornire nuovi spunti di riflessione. Non è solo la scelta dei singoli musicisti, delle location, il taglio della proposta musicale nel complesso, la costante presenza del mare o il clima di totale convivialità che si crea tra organizzatori, musicisti, staff e pubblico. Isole che parlano mostra nuovi modi di fare musica, partendo proprio da quella tradizione che il sentire comune vede – per definizione, senza grandi margini di dialogo – conservatrice e retrograda.
La musica tradizionale è quella identificabile come folklorica, notoriamente di origine popolare, suonata con strumenti storici o comunque non di recente concezione, trasmessa oralmente e concepita, spesso, da autori sconosciuti. Nanni e Paolo Angeli, nella scelta dei musicisti e dei progetti da coinvolgere all’interno del festival, attingono da un enorme bacino di artisti contemporanei che si rifanno in qualche modo alla musica tradizionale o ne suonano gli strumenti. Ma la scelta che operano ogni anno è sempre orientata verso musicisti che travalicano il concetto stesso di tradizione, facendone propri i canoni per superarli e dimostrare che sono tutt’altro che linguaggi musicali statici. Anzi, spesso si possono rivelare tanto dinamici da poter diventare contemporanei, dando prova che l’evoluzione della musica cosiddetta tradizionale va oltre la necessità di conservazione della memoria storica, e che, a un livello prettamente musicale, prima ancora che culturale o identitario, può prescindere proprio da questa motivazione. Ben consapevoli di questo, gli organizzatori del festival cercano di mettere in luce e valorizzare il paradosso secondo il quale nuovi modi di fare musica, nuovi suoni, armonie, melodie, arrangiamenti e modi di concepire la canzone, possano originarsi anche da strumenti e forme arcaiche, dimostrando che, alla fine, tutto può essere attualizzato e reso davisianamente cool.
Ai musicisti che si esibiscono a Isole piace mettere in discussione gli stessi strumenti, vederli con altri occhi, suonarli con altre mani e, quindi, far si che qualcuno possa ascoltarli con altre orecchie. Che alla fine è quello che il pubblico, consapevolmente o meno, si ritrova a fare durante i live, dove non esistono palchi e transenne, dove si può stare a pochi metri dai musicisti, sentire il rumore delle mani sulle corde e poter osservare da vicino le tecniche di esecuzione e le caratteristiche costruttive e meccaniche degli strumenti stessi. Emblematiche, a riguardo, sono state le facce sbigottite di chi, a Porto Faro, si è accalcato al termine del concerto del Duo Ruut, intorno al loro zither, dopo aver constatato che lo strumento con cui, fino a qualche minuto prima, le due giovani ragazze estoni avevano suonato un pop cristallino e sofisticatissimo à la Gotye, non fosse altro che una semplicissima cetra da tavolo e che a essa non fosse collegato alcun dispositivo elettronico.
Oppure l’incontro/lezione che si svolge alla Chiesa campestre di San Giorgio, che quest’anno ha visto avvicendarsi la suonatrice turca di kemancheh Melisa Yildirim, il conterraneo Ozan Baysal con il suo saz a doppio manico e il virtuoso calabrese della chitarra battente, Alessandro Santacaterina. Tutti musicisti giovanissimi, con curricula accademici e esperienza sul campo da vendere, che hanno ripreso concezioni musicali tramandate oralmente da persone che non hanno mai letto un pentagramma o sostenuto un esame. Incalzati dalle domande di Paolo Angeli, hanno avuto modo di spiegare come funziona il proprio strumento, come ci si sono avvicinati, come ne hanno acquisito padronanza e, infine, come siano riusciti a discostarsene per poter stravolgere tutto quello che avevano imparato e arrivare a tirar fuori dal proprio strumento suoni e armonie ancora inesplorate. Il pubblico, totalmente rapito, ha assistito alle dimostrazioni pratiche di quanto raccontato dai musicisti: di come Ozan Baysal ha raddoppiato i manici del proprio saz per poterlo suonare con tapping e tecniche pianistiche, di come Melisa Yildirim ritenga fondanti per la propria musica l’improvvisazione e la meditazione, o dell’incredibile percorso di studi e sperimentazioni che ha portato Santacaterina a sviluppare la tecnica di cui ha dato sfoggio, passando con disinvoltura da un Fandango del ‘700 a una pastorale suonata con una ventola per pc.
Non sono ovviamente mancati gli appuntamenti che si rinnovano ogni anno al festival. Come “Di Granito”, dedicata ai canti polivocali della Sardegna, a tenore, cuncordu, cuntrattu che siano, altra grande passione dei fratelli Angeli. Durante il festival, quando sono lontani dai riflettori, non mancano mai di intonare canti galluresi, che ormai anche i ragazzi dello staff sembrano conoscere a memoria. Quest’anno “Di Granito” si è svolta in forma di sonorizzazione itinerante della Roccia dell’Orso, lungo il percorso che conduce alla sua sommità, con diverse “stazioni” nelle quali si sono alternati il Tenore S’arburinu de Orune e il Tenore Ususule de Siniscola, che ha intonato, dopo una doverosa premessa in baroniese sulla presenza militare in Sardegna, il loro celebre canto sulla base Nato di La Maddalena “Americanos”.
Come non è mancata la grande musica internazionale, la cui punta di diamante per questa edizione è stata senza dubbio Yazz Ahmed. La trombettista e flicornista del Bahrain trapiantata – manco a dirlo – a Londra, si è esibita, sabato, con il suo quartetto a Punta Faro e in solo, domenica, sulla battigia di Cala Corsara, sull’Isola di Spargi. Due set completamente diversi che hanno esaltato solo alcune delle sue tante doti. Il live con il quartetto formato da Martin France alla batteria, Ralph Wyld al vibrafono e Dave Manington al basso ha mostrato il suo stile compositivo: sempre sorprendente, giocato sulle dinamiche corali, apparentemente mutuato dall’elettronica, con stacchi, rallentamenti, cambi di tempo e di ritmo. Yazz non sta sempre al centro della scena, al contrario i brani lasciano molto spazio ai singoli, fuori dall’isolamento del momento solista e sempre al servizio del suono di insieme, di chiara estrazione araba, l’elettronica trova sfogo nell’effettistica e nelle manipolazioni, ma anche nei suoni della parte ritmica, con puntate nello space jazz e nel funk. Ogni brano è anticipato da più o meno lunghe dissertazioni sui contenuti e sulle motivazioni che muovono la sua scrittura: tanti i brani da La Saboteuse e dal suo ultimo acclamatissimo Polyhymnia, dedicato a figure chiave del movimento femminista. Nel set sull’Isola di Spargi invece si ritrova sola con flicorno, tromba, Kaoss Pad e solo il mare alle sue spalle. Una mano sull’ottone e l’altra sul korg a modulare i suoni con echi e riverberi, sfodera il suo personalissimo timbro, intriso di intensità e passione, tormentato ed energico insieme, dove vengono a galla chiaramente tutte le venature che attraversano la sua musica: l’impegno sociale, lo stretto legame con il mondo arabo e la sofferenza che accompagna le sue battaglie.
Irrinunciabile anche il passaggio in una delle tante aziende vitivinicole sparse per l’entroterra gallurese. Quest’anno è la volta delle Cantine Filigheddu, a pochi chilometri da Palau, dove, sotto una piccola pineta all’interno delle tenute, si sono esibiti i Pororoca, recente talentuosa formazione che vede Alessandro Cau alla batteria, Tancredi Emmi al contrabbasso e Federico Fenu al trombone. Introdotti dalle lodi tessute da Paolo Angeli a proposito di una vivace scena avanguardistica sarda, che nasce e cresce lontano dalle città, nel tentativo di rompere gli steccati tra generi, con dischi, collaborazioni ed etichette, il terzetto onora le premesse e propone un jazz giocoso, fatto di ritmo, variazioni, melodia, dilatazione, silenzio e tecnica da vendere. Anche i Pororoca cercano di defilarsi dalla tradizione – accademica in questo caso – suonando in maniera tutt’altro che canonica, senza far mai mancare elementi di disturbo anche nei passaggi più lineari, combo perfetta per una domenica mattina trascorsa a sorseggiare vermentino all’ombra dei pini. In autunno uscirà il loro primo disco, prodotto da Ticonzero in cassetta e digitale per l’etichetta 42 Records. Non mancheremo di scriverne.
Paolo, nel tentativo di spiegare a parole l’essenza di questo festival, ha detto che la musica è fluida come l’acqua e libera come il mare, bagna allo stesso modo Palau, Istanbul, Tunisi e il Mar Baltico. Non è un caso quindi che il festival si concluda con il solito saluto al mare dalla spiaggia di Palau Vecchio. Di rientro da Spargi un manipolo di reduci onora questo rito di commiato e propiziatorio insieme. Un ringraziamento al mare e all’acqua, che accompagna il festival e le sue genti, e un augurio che questo piccolo miracolo possa compiersi anche il prossimo anno, auspicio che finora non ha mai deluso le speranze.