Scrivere una recensione non è cosa facile di per sé. E di fronte a un disco come questo potremmo cavarcela con un mero riferimento ai nomi che il collettivo in esame ha spiaccicato in bio su Spotify (Meshuggah e Bjork) o tra gli hashtag nella piattaforma Bandcamp (anche Tool e Jinger). Due tre frasi a effetto unite a poche info anagrafiche ed ecco una rece come tante se ne leggono.
Ora, posto che questo Pyramiden è uscito già due mesi fa e che quindi solo per questo potrebbe salire di livello da disco della settimana a disco della primavera (ma sarebbe riduttivo anche ciò), il gioco che chi scrive vi propone è un altro.
Qui – come in tutte le produzioni che sfacciatamente si affacciano per lasciare il segno – non abbiamo a che fare con un materialismo dialettico applicato soltanto alla musica composta (e come prima potremmo cavarcela con poco limitandoci a citare elementi di death, prog, avanguardia etc…); qui la conversione della quantità in qualità, la compenetrazione degli opposti e la negazione della negazione danzano tra solchi e padiglioni, tra emittente e ricevente chiedendoci il più grande protagonismo.
E quindi ne abbiamo voglia noi di dire che i Syk, con il loro metal estremo avanguardistico, ci propongono un mix di x e y. Il mix siamo noi stessi di fronte a tutto ciò e avvolti da tutto ciò. Avete presente le buffe facce della cantante Elizabeth Zharoff alle prese con le sue vocal analysis su Dio, Halford, Geddy Lee e altre ugole d’acciaio su Youtube? E le simpatiche smorfiette del compositore classico Doug Helvering con le sue reacts quando passa al setaccio le strutture musicali di Maiden, Metallica, Queen, Pink Floyd?
Ecco, casi di studio a parte, il mix siamo noi a bocca aperta, bicefali o bifronti, un po’ Elizabeth e un po’ Doug svegliati dal sussurro («awaaaake!») di nostra sennora Dalila Kayros nell’imponente e durevole title track. Sbattuti giù alla base di questa piramide sonora, schiacciati da sette livelli di gradoni massicci quante sono le tracce di questo terzo album della band italo-sarda, non ci resta che lasciarci coinvolgere dalle basse accordature di Stefano Ferrian e di Marcello Cravini, dalla malatissima sezione ritmica di Mauro Maraldo e Marco Mastrobuono e dai vocalizzi sperimentali de sa boghe scaturita dae sas intragnas della nostra terra.
Il tutto propostoci in quaranta minuti circa. Tempo che non passa in fretta, per dirla tutta, e che, dopo vortici e fratture, ci presenta un finale apicale proteso verso la volta celeste con la coda di Cell of the sun.
Pyramiden – pubblicato dalla celebre Nuclear Blast, prodotto da Fabrizio Gesuato, masterizzato da Stephen Berrigan e pasticciato in copertina da Elena Romenkova – va interpretato come un dono con lama appuntita, che non puoi riceverlo senza contraccambiare con il rituale della monetina. Rituale rappresentato in questo caso da una reciprocità che non prevede un mero ascolto del disco da parte di ciascuno di noi, ma anche la ricerca di parole che – per descriverlo – vadano oltre l’ovvio.