«Magari fra dieci anni mi ritroverete su un’isola con il mio pezzo di terreno, sarò il tizio che si fa la doccia con l’acqua piovana e che coltiva l’orto. Ecco come voglio diventare». Il novello Robinson Crusoe che ha pronunciato queste parole altri non è che Brian Molko che, insieme al sodale di sempre Stefan Olsdal, ancora compone la forma di quella creatura che risponde al nome di Placebo.
Risulta ignoto se il musicista identificasse esattamente la Sardegna come locus amoenus, fatto sta che sulla nostra isola i Placebo sono sbarcati già due volte in passato: nel 2010 per lo storico concerto di Sarroch e nel 2016 per girare il video del singolo Jesus’ Son, tratto dalla raccolta A Place for Us to Dream, scandito dalle immagini dei Boes del carnevale di Ottana, della spiaggia di Scivu e del villaggio di San Salvatore di Sinis.
La saggezza popolare ha stabilito in epoche ancestrali che non c’è due senza tre, ed è così che nel pomeriggio di un afoso quattro luglio arriva come un fulmine a ciel sereno la notizia che i Placebo suoneranno a Sassari, allo stadio Vanni Sanna il primo giorno di Agosto. Lo stadio sassarese aveva già in passato ospitato grandi nomi della musica italiana e internazionale: Fabrizio De Andrè, Ligabue, Spandau Ballet e Sting, giusto per citarne alcuni, ma da almeno una ventina di anni tale struttura non veniva utilizzata per l’intrattenimento musicale. Il ritorno dei Placebo rappresenta quindi un evento sia per la città che per la stessa isola, la quale vede una band di caratura internazionale ritornare ad esibirsi sui palchi sardi in una stagione particolarmente ricca di eventi.
Nonostante una campagna pubblicitaria poco invasiva e il poco preavviso sulla data, i biglietti staccati sono stati circa 4000, il che rappresenta sicuramente un grande successo per Insula Events, che di fatto può vantarsi di aver organizzato quello che è uno degli eventi principali dell’estate. La mattina del primo agosto vede fin dalle prime ore una decina di persone in fila ai cancelli dello stadio, le quali diventano una quarantina già verso l’ora di pranzo: si auto-organizzano numerandosi come in una sorta di roll-call, alcune di loro vengono da varie parti d’Italia come Liguria, Toscana e Lombardia. I Placebo hanno suonato in Italia già cinque volte durante l’anno, eppure evidentemente contano su uno zoccolo duro di fan disposti a seguire più tappe del tour europeo, nonostante la pochissima varietà delle scalette. All’apertura dei cancelli l’afflusso del pubblico avviene in maniera ordinata: i primi ad entrare arrivano di corsa per accaparrarsi un posto in transenna o nelle prime file, ma l’atmosfera generale è quella di chi vuole godersi una serata di musica senza ansie e preoccupazioni. I gazebo del food and drink lavorano instancabili mentre una selezione musicale curata da DJ Sergione intrattiene gli astanti facendoli ballare e cantare sulle note di Talking Heads e Depeche Mode.
Numerosi sono i cartelli che ricordano ai presenti di non usare i telefoni cellulari durante il concerto, esortando a ricercare una connessione intima con musica e band. Il concetto viene ribadito con gentile fermezza da un video dove l’ologramma di Brian Molko invita il pubblico a godersi lo show per permettere agli spettatori posizionati più indietro di assistere al concerto in maniera diretta e non attraverso gli schermi degli smartphone di chi sta più avanti, messaggio ripetuto successivamente in italiano: una misura sicuramente meno drastica rispetto a quelle ideate per i concerti di Bob Dylan o Madame.
I Placebo appaiono con puntualità: Francesca, capelli verdi e oltre cinquanta concerti della band visti all’attivo, afferma con sicurezza fin dai primi istanti che l’umore sul palco è alto, profezia risultata poi esatta. La scaletta è dominata dai brani dell’ultimo disco Never Let Me Go: una scelta che potrà scontentare chi aspettava Special K, Pure Morning o Every You Every Me, ma che sicuramente dimostra come i Placebo siano una band attiva, che non indugia sulla nostalgia ma è bensì desiderosa di consegnare al pubblico esperienze musicali sempre nuove, con tanti saluti alle opinioni di Josh Homme sugli artisti che non presentano dal vivo i loro grandi successi. E allora via con Forever Chemicals, funestata in parte da una equalizzazione che non premia le voci di Olsdal e Molko, con quest’ultimo a chiedere in maniera evidente più volume sul palco, ma che mostra già un più che discreto wall of sound. Dal secondo brano Beautiful James i suoni trovano la giusta quadra: il volume potrebbe essere leggermente più alto per favorire le ultime file, ma in generale ogni suono appare piuttosto distinto e preciso mentre la voce di Molko buca il mix specialmente quando si spinge nelle frequenze medio-alte. Mentre la security interviene prontamente a ogni minimo accenno di presenza di smartphone, la band europea (così amano definirsi in aperto contrasto anti-brexit) appare precisa come un orologio svizzero: i brani scorrono fluidi, il ritmo è serrato, non sono previste interruzioni se non quelle in cui i musicisti rapidamente cambiano strumenti, cosa che avviene letteralmente a ogni brano. Appare doveroso dedicare una nota speciale a chi condivide il palco con Molko e Olsdal, permettendo il pieno compimento del Placebo sound: Bill Lloyd (pianoforte, tastiera, basso), Nick Gavrilovic (chitarra, lap steel guitar, tastiera, cori), Matthew Lunn (batteria, percussioni) e Angela Chan (violino, tastiera, percussioni, cori) appaiono compatti e decisi, dimostrando una perizia non comune nell’utilizzo degli strumenti.
La prima concessione ai vecchi brani è rappresentata da Bionic, tratta dal disco di esordio della band e accolta da una impressionante ovazione del pubblico. Colpiscono le esibizioni appassionate di Surrounded by Spies e soprattutto Sad White Reggae con il suo finale evocativo e ossessionante dominato dalla frase “collapse into never”. Ma è nel trittico Song to Say Goodbye, The Bitter End, e soprattutto Infra-Red che il pubblico già carico trova il pretesto per esaltarsi e saltare. Dopo una breve pausa i bis si aprono con una potentissima versione di Shout dei Tears for Fears, ideale per il sing-along del pubblico, per poi continuare con la disturbante Fix Yourself e concludere con la catarsi di Running Up That Hill, cover di Kate Bush che gli appassionati della serie TV Stranger Things ricorderanno sicuramente con entusiasmo, e che fornisce la base perfetta per un finale dominato da feedback infestanti che sigillano il concerto alla fine di un’ora e quarantacinque minuti circa di suoni, note e parole. Molko e Olsdal hanno una chimica perfetta sul palco, si concedono alla platea sorridendo e senza risparmiarsi, nei momenti più ritmici incitano a battere le mani a tempo, regalando anche momenti di dolcezza assoluta: una ragazza particolarmente emozionata riceve in dono il plettro di Olsdal, smussato in punta dall’uso dirompente che ne fa il polistrumentista svedese; lo stesso Olsdal saluta a fine concerto l’intera prima fila stringendo mani, mentre una bambina riceve i plettri direttamente da Brian Molko, il quale andrà via con un disco regalatogli da qualcuno delle prime file.
Non deve essere stato semplice realizzare un evento del genere in un lasso di tempo così ristretto: alcuni dettagli organizzativi sono sicuramente migliorabili in prospettiva di un futuro prossimo fatto di altri eventi di questa grandezza, ma tutto è apparso ben gestito. Certo è che la presenza in Sardegna di un gruppo del calibro dei Placebo è il segno di una offerta culturale sfaccettata e ben distribuita in varie zone dell’isola, che può rappresentare una occasione importante di sviluppo come testimoniato anche da eventi come il Time in Jazz berchiddese. Chi era presente al concerto sassarese dei Placebo, anche se non pienamente un fan del gruppo, ha avuto la sensazione di una serata importante e a tratti storica: una grande band per un grande evento come non si vedeva da molto tempo, e in molti sono andati a dormire la sera con la sensazione di aver vissuto una giornata memorabile, e con la segreta speranza di poterne vivere altre.