Intervista con il chitarrista blues genovese
Ciao Paolo e grazie per questa intervista. Vado subito al dunque e parto con le domande. Quando hai iniziato a suonare?
Ho iniziato a suonare la chitarra nel lontano 1975 quando avevo quindici anni. Col passare del tempo la cosa è poi diventata in qualche modo un lavoro. A fine anni settanta quando ho cominciato a capire che stavo, come dire, guadagnando, anche se poco, ho iniziato a esibirmi in giro e a dare qualche lezione. Metti sia stato il 1975 quando presi in mano la chitarra e 1979/80 quando ho cominciato a farlo come lavoro.
In pratica hai iniziato a fare questo lavoro quando io sono nato. La tua passione per la musica da cosa è nata?
Vivendo in una famiglia di musicisti è stato abbastanza facile. È difficile ora dire a un genitore che vuoi fare il musicista, immagina ai tempi. Io ho avuto però la fortuna di avere genitori appassionati di musica, nonni sia materni che paterni che sono stati musici. Mio nonno materno è stato uno dei primi batteristi jazz italiani, suonava sui transatlantici tra Genova e New York e tra Genova e Buenos Aires. Ho anche uno zio paterno che è stato violoncellista nell'orchestra della Scala quando c'era Claudio Abbado. Dire ai miei parenti che avrei fatto il musicista di professione, quindi, non è stata presa come una cosa assurda. Sia perché era già un ambiente di musicisti, sia perché suonavo già il pianoforte da bambino. Avevo sei anni quando ho iniziato col piano forte poi, a un certo punto ho scoperto la chitarra, il rock e come conseguenza il Blues che è diventata la mia passione e il mio mestiere.
Facciamo un salto. Abbiamo parlato dei tuoi primi passi. Andiamo direttamente in Sardegna ora. Questa non è sicuramente la prima volta che vieni in Sardegna. Io sono nato a Narcao quindi mi pare di ricordarti anche nel cartellone del Narcao Blues, forse anche più di una volta, o sbaglio? Ho anche visto il tuo live a Vulcani. Come vedi, quindi, questa terra sia dal punto di vista generale che anche dal punto di vista musicale?
A Narcao ho suonato due volte. Per un'edizione invernale e per una estiva. In quella estiva ero con gli Slow Feet, un mio gruppo parallelo con Franz Di Cioccio e Lucio Fabbri della PFM. Con i concerti in Sardegna a Cagliari e Sassari di questo week end siamo a, forse, duecento date nell'Isola. Vulcani a Santu Lussurgiu è stata una bellissima esperienza. Quindi per me la Sardegna è una terra Blues in tutti i sensi. Mare, sofferenza, problemi ma anche entusiasmo e una recettività particolare per la musica ed in particolare al Blues. Torno in Sardegna sempre molto volentieri e sempre mi sento a casa.

Tu sei di Genova, patria di tantissima musica. Com'è Genova per far attecchire un progetto musicale? Oltre il fatto che tu magari hai trovato un terreno fertile dal punto di vista personale grazie ai tuoi familiari. Ti chiedo, com'è Genova per un musicista?
Sarò pure genovese ma vivo in Piemonte da quasi vent'anni. Genova è una città che ha dato i natali a tanti grandi musicisti ed è sempre una fucina di musica. Se però si hanno ambizioni per uscire almeno a livello nazionale bisogna spostarsi. Gli spazi per la musica son sempre molto ristretti e comunque meno. Ora, poi, c'è anche una crisi un po' generalizzata per ciò che riguarda la musica dal vivo. Sono solito dire che adesso forse c'è più gente che suona che gente che ascolta. Quando ho iniziato, erano pochi che suonavano e molti che venivano a vedere e ascoltare i concerti. C'è pure il discorso social e internet, la musica si scarica. La rete ha dato un brutto colpo alla musica e da Genova bisogna per forza spostarsi se si vuole uscire allo scoperto e vivere di musica.
Certamente, per quanto con i social media sia molto più facile promuovere le cose che si fanno, alla fine diventa soltanto un gioco di promozione fine a se stesso. Ci promuoviamo tutti l'uno con l'altro. E dopo portare gente ai concerti diventa difficile. Già locali che fanno musica dal vivo e che hanno il coraggio di continuare a farla son sempre meno. Per cui, anche se ha accelerato i tempi di connessione tra tutti, è un ostacolo poi al contatto diretto, personale, e il live dove devi prestare attenzione, fermarti, ne risente.
Back Home Alive? Hai qualcosa in cantiere dopo questo live album?
Sì, Back Home Alive è, appunto, un live ed è una specie di retrospettiva. Abbiamo preso un po' di brani vecchi e abbiamo rifatto gli arrangiamenti per l'occasione. In realtà il disco a mio nome più recente è Exile On Backstreets del 2013. In mezzo ne ho fatto uno con Martino Coppo in duo, Friend of a Friend. Anche questo molto particolare, un progetto parallelo.
Qualcosa in ballo c'è a dire il vero, ma è ancora a livello progettuale. I tre dischi che ti ho nominato sono usciti nel giro di un anno e mezzo. In più c'è anche il doppio vinile di Back Home Alive con due brani in più rispetto al CD. Per questo mi sono preso un periodo di riposo. Adesso sono in giro a suonare dal vivo anche con altri progetti. Poi ho l'attività nelle scuole con diversi workshop. Metti che il nuovo disco sia previsto per il 2019.

Benissimo. Ti faccio l'ultima domanda. Mi ha un po' spiazzato questa cosa di Trent'anni di Ortodossia. Sfatiamo definitivamente il mito che non sei tu quel Paolo Bonfanti regista del film.
Sì, è solo un mio omonimo. Per quello che riguarda i Trent'anni di Ortodossia poi, mi sento veramente lontano dell'ortodossia. Nel senso che è vero che sono stato inquadrato nell'ambiente Blues. Ma Blues cosa vuol dire? Blues è una terra madre alla quale si ritorna dopo che si fanno i propri giri. Dopo le proprie esplorazioni si ritorna alla terra madre. Questo però non vuol dire che poi si riparta per nuove avventure. Quindi ritengo di non avere nulla a che fare con l'ortodossia. È lontanissima da come la vedo io sulla musica e sulla vita, questo senz'altro, anche se poi il film del mio omonimo è molto interessante.
Grazie Paolo per la tua disponibilità.