Fusion Rebirth – Ozone Park

RedazioneMusica, Recensioni

Recensione di Muflone

New York 2016.

Durante la frequentazione di un noto seminario jazz, quattro musicisti sardi, Giuseppe Chironi (piano, basso, clavicembalo, Organo, Rhodes, Synth), Alessandro Masala (batteria), Davide Nicola Buzzo (Sax, EWI) e Gianluca Cossu (Congas, Timbales, Vibrafono) si ritrovano a chiaccherare all’interno dell’, nei pressi della Grande Mela, e decidono di affittare una sala prove per divertirsi un po’.

Nascono così gli Ozone Park, che nel 2017 debuttano con il loro primo lavoro intitolato Fusion Rebirth, uscito per Emme Record Label.

Diversi i riferimenti musicali del disco:

jazz, fusion, progressive, latin jazz, bossa nova e più in generale un continuo riferirsi alle atmosfere musicali anni ’70.

I brani

Si parte con Bocius, primo pezzo del disco e anche loro prima composizione, batteria e basso a formare il groove, organo e sassofono ad abbellire il tutto in pieno stile poliziottesco.

Il secondo pezzo è la title track Fusion Rebirth, le atmosfere rimangono simili, groove alle stelle e organo protagonista.

Con Kimberly Dreams, pur rimanendo cronologicamente negli anni di piombo, si vira verso altre strade, partendo da un’atmosfera onirica leggermente prog e un giro di basso che mi ricorda felicemente l’amata sigla di “Megaloman”, si passa poi improvvisamente a un’impennata latin che vede il vibrafono come strumento principale e che altrettanto improvvisamente si chiude per riprendere dal giro iniziale.

78 game è un altro minestrone di generi, ancora una volta saporito, che vede in prima linea funk jazz, prog e latin in un susseguirsi di stacchi sempre ben orchestrati.

Proseguiamo con El niño de Cuba, brano che conferma i generi nei quali i quattro musicisti si muovono ma che in questo caso predilige il latin jazz e il prog.

Se man mano che si ascolta il disco si comincia a capire quali sono i riferimenti più chiari dei quattro, quello che invece non si capisce mai è il modo in cui questi verrano mischiati, costituendo un elemento sorpresa continuo e molto interessante.

Sullo stesso solco dei pezzi precedenti si trovano sia Last train to sausalito, tempo dispari con un profondo groove funky, che Blue Glass, bel pezzo che ci porta dall’America latina agli USA, con al centro una fugace quanto imprevista cavalcata prog tipicamente europea!

Il disco si chiude con Winter Drops, un pezzo dall’umore jazzy che ci porta in USA come il precedente e vede il vibrafono assoluto protagonista.

Fusion

Piccola curiosità, il disco mi è stato presentato come appartenente alla “fusion” e il lavoro è effettivamente pregno di “fusioni”.

Se invece per fusion intendevano il genere musicale, io non ne ho assolutamente sentito traccia.

Per chiudere, pur presentando una forse eccessiva presenza di tematiche (diciamo che siamo sul filo del rasoio), questo disco risulta ben scritto, molto ben suonato e ben registrato, oltre ad avere dei meriti fondamentali quali la fruibilità nonostante la complessità dei generi presenti e la capacità di farti fare un bel viaggio musicale tra Americhe e Europa.

Molto bravi.