Il racconto della dodicesima edizione dell’International Nora Jazz Festival
di Simone La Croce e Claudio Loi, foto di Barbara Pau e Daniele Fadda
Anche quest’anno International Nora Jazz ha confermato la sua missione di fondo: offrire spettacoli di qualità in uno scenario tra i più suggestivi dell’isola e privilegiare il cotè femminile della scena musicale contemporanea. Women in Jazz è da sempre il leit motiv della rassegna organizzata dall’Associazione Enti Locali per le Attività Culturali e di Spettacolo: una scelta intelligente che permette di proporre spettacoli e artisti non troppo visti da queste parti e vivere una situazione culturale che si posiziona in linea con i migliori festival europei. Certo, il termine jazz è da prendere con le dovute cautele in quanto le proposte sono molteplici e non sempre collegabili a quel mondo, ma va bene così: l’arte non può e non deve essere un mondo chiuso e isolato ma territorio di confronto e sperimentazione multidisciplinare.
L’apertura del 31 luglio è riservata a un duetto tra pianoforti, quello dei cubani Omar Sosa e Marialy Pacheco. La loro esibizione rappresenta l’incontro tra due generazioni di musicisti – vent’anni sono infatti gli anni di differenza tra i due –, ma anche tra differenti visioni jazzistiche, classiche e afro-caraibiche, che in entrambi si fondono e li portano a dialogare con gioia e pathos. Così la Pacheco si lascia trascinare con facilità nei fuori pista dell’istrionico Sosa, con i suoi balletti, le sue risate e le sue particolari attenzioni nei confronti del pubblico, sempre entusiasta di essere chiamato in causa. Duets è lo spettacolo che mettono in scena nell’incredibile cornice del capo di Pula, a ridosso delle antiche rovine nuragiche, puniche e romane che ripercorrono l’intera storia dell’isola: un’intesa perfetta, fluida e naturale che riporta il latin jazz lì dove lo hanno condotto i capostipiti del genere – Dizzy Gillespie, prima, e João Gilberto e Stan Getz poi – e che oggi è diventata una dinamica corrente internazionale sempre attuale.
Un altro duo ha accolto il pubblico giovedì 5 agosto, quello formato dalla cantante coreana Youn Sun Nah e dal chitarrista svedese Ulf Wakenius. Un duo atipico, sia per la performance offerta, sia per la combinazione artistica. Youn Sun Nah è una vocalist incredibile, dotata di una tecnica vocale sopraffina, capace di spaziare dallo scat al canto lirico, passando attraverso il falso cordale e un’estensione vocale che sembra non avere limiti. Le doti di Ulf Wakenius sono state ben descritte dal più noto collega John McLaughlin: “Sembra sia nato già con la chitarra tra le mani”: la grande disinvoltura e il tocco delicato fanno sembrare semplici e velati anche i passaggi più complessi, consentendogli di creare tappeti, riff e atmosfere estremamente variegate. Un approccio all’esibizione che sembra essere condiviso tra i due: i virtuosismi e le dimostrazioni di forza di entrambi sono ben dosate e mai eccessive, cosa che gli consente di rendere in maniera semplice anche le parti più articolate e di farsi apprezzare così anche da un pubblico poco avvezzo a cogliere tecnicismi e complessità.
Buona parte dei brani eseguiti vengono da ”Immersion”, ultimo lavoro della cantante pubblicato dalla Warner nel 2019, tra cui diverse reinterpretazioni di brani noti, che entusiasmano e meravigliano il pubblico: Hallelujah di Leonard Cohen, Enter Sandman dei Metallica, Sans toi di Michel Legrand, Summertime di Gershwin, fino alla chiusura con la struggente Jockey full of bourbon di Tom Waits. Un’esibizione allo stesso tempo essenziale e multicolore ma sempre sorprendente, che ha spaziato attraverso i generi e le tecniche esecutive, con sprazzi di rock, new wave, folk, chanson, blues, e che ha avuto grande impatto sul pubblico, le cui lunghe acclamazioni finali hanno accompagnato i musicisti fino alla loro uscita dal palco.
Il 7 di agosto il palco di Nora ha ospitato la performance del quartetto di Dobet Gnahoré: eccentrica e vigorosa vocalist originaria della Costa d’Avorio ma trasferitasi in Francia dal 1999 a seguito di vicende politiche e civili poco confortevoli della sua terra d’origine. Questa polisemica formazione culturale è ben presente nella sua proposta musicale che attinge in egual misura alla cultura africana e a quella occidentale come ormai è consuetudine per molti artisti africani. Per questo concerto la cantante e percussionista ivoriana si è fatta accompagnare da Julien Pestre alla chitarra, che è la vera spina dorsale del quartetto come spesso avviene in molte formazioni di questo genere, da Mike Dibo alla batteria, e da un bassista preciso e concreto come Louis Haessler. Il suono d’insieme è compatto, fluido, ritmico e coinvolgente e verrebbe da inserirlo nella grande scuola dell’afrobeat e quindi alla leggenda di Fela Kuti e Tony Allen ma – per evitare paragoni poco consoni – sarebbe meglio chiamarlo semplicemente afro-funky un termine che rispecchia al meglio quanto sentito e che in qualche modo ci riporta a un’altra grande interprete della world music contemporanea: Angélique Kidjo, che è una delle muse ispiratrici della vocalist ivoriana. Dobet Gnahoré è una presenza forte, spacca la scena, canta, suona le percussioni, balla in modo divino e lo spettacolo funziona proprio per questa bella commistione tra un suono incalzante e vitale e una parte scenica che è sempre in primo piano in questo tipo di proposte. Il quartetto è coeso, si percepisce una lunga esperienza comune e la chitarra di Pestre è il vero motore propulsivo di tutta la struttura sonora: una macchina ritmica instancabile che passa con disinvoltura dal funky metropolitano tipo Nile Rodgers fino alle nuove cavalcate elettriche delle tribù tuareg del deserto (Tinariwen e derivati) e persino qualche sortita nelle periferie di Kingston. Uno spettacolo che ci fa sentire per una notte cittadini del mondo e parte di un grande sogno.
Il festival si chiude il 12 agosto con la performance della chanteuse norvegese Rebekka Bakken accompagnata da Kjetil Bjerkestran alle tastiere e Rune Arnesen alla batteria entrambi figli del grande Nord. Lo spettacolo parte con le note di Downtown Train, un vecchio classico di Tom Waits del 1984, per sola voce e pianoforte giusto per mettere in chiaro le cose. Il riferimento a Tom Waits e alla sua poetica così poco confortevole sottolinea il forte legame che la Bakken ha stretto con certa cultura americana, con artisti come Carole King, Carly Simon o la prima Joni Mitchell, ma soprattutto con Tom Waits al quale ha dedicato nel 2014 un intero album di cover: Little Drop of Poison. Bisogna avere doti particolari e una misurata dose di follia artistica per riuscire a confrontarsi con questi mostri sacri della musica e la Bakken dimostra di essere all’altezza della situazione: una voce potente e cangiante, una presenza scenica forte, ieratica, quasi mistica e un certo aplomb nel rapporto con il pubblico che dimostra quanto la norvegese sia abituata a stare sul palco. Ma il mondo della norvegese non si chiude certo qui e la serata diventa un bel viaggio che ci riporta anche alla nostra vecchia Europa quando vengono eseguite malinconiche ballate con un certo piglio da cabaret fin de siècle che talvolta abbiamo imparato ad amare grazie a Marianne Faithfull e alle sue strazianti e disperate canzoni per cuori solitari. Ma c’è anche il grande Nord e non poteva essere altrimenti. Una terra così piena di misteri e fantasmi, miti ancestrali, spazi infiniti, luci, ombre e una natura sempre difficile da governare. E in questi momenti che la musica della Bakken diventa immaginifica, misteriosa e arcana e appare evidente in tali frangenti il grande debito che il Nord tutto ha nei confronti di Esbjörn Svensson e il suo E.S.T. Trio, uno dei momenti più alti della storia della musica europea. Affascina il ricorso a una lingua per noi sconosciuta (norvegese o chissà quale arcana variante), quasi una litania che si perde nella notte di Nora, l’elettronica cupa e avvolgente creata dalle tastiere di Bjerkestran e quel drumming soffuso, controllato, sempre giocato su toni bassi che arriva dalle mani di Rune Arnesen. Questa è Rebekka Bakken un’artista che riesce ad essere poliedrica e duttile senza per questo correre il rischio di essere dispersiva o frammentaria.
Si chiude così, con la magia della voce di una cantante che arriva dal freddo, un festival sempre interessante, con proposte inusuali, ben organizzato e particolarmente attento alla qualità dei suoni e al rapporto con il pubblico. Non è poco e tanto ci basta per darci appuntamento al prossimo anno.