Naghol. L’immersione in terra è un rituale eseguito dagli uomini della parte meridionale dell’isola di Pentecoste, Vanuatu. Il precursore del bungee jumping, gli uomini saltano giù da torri di legno alte circa 20-30 metri, con due rampicanti avvolti intorno alle caviglie. (Wikipedia)
Riecco Giacomo Salis in perfetta solitudine dopo lunghe ed estenuanti session percussive sperimentali condivise con altri liberi cittadini del suono, ma anche felici incursioni in territori più popular, sempre intrisi di grande pathos e spirito avanguardistico. Un lavoro che si concentra su quello che può scaturire da un singolo oggetto: in questo caso una molla suonata con altri oggetti, studiata nella sua più natura più nascosta, svelata nelle sue recondite intimità, messa a nudo, sezionata e riconsiderata come cosa e come entità plausibile. Salis ci indica che ogni oggetto ha “un suono nascosto” o meglio un “suono multiplo” che in apparenza non si coglie. Questa intima ricerca del dark sound ci riporta per certi versi al rapporto che Pinuccio Sciola aveva instaurato con le sue pietre che considerava come contenitori di storia, di umori, di ricordi e di suoni.
Dentro ogni cosa, anche la più semplice e banale, si nasconde un universo di emozioni e idee, un infinito rimando al tempo e alle circostanze della vita, scatola nera di un sapere antico e misterioso. Naghol è un tuffo senza rete e senza protezioni verso l’inconoscibile essenza dei suoni, quelli primordiali che arrivano e si manifestano solo dopo lunghi e attenti appostamenti. Un approccio che ricorda le ricerche della “particella di Dio” dove scienza e filosofia si incontrano, dove finito e infinito, sacro e profano non hanno mai un limite definito. È qualcosa di terreno e di ultraterreno, di follia che diventa raziocinio e che si rappresenta come un viaggio senza destinazione: conta solo il viaggio.
Naghol si sviluppa per un arco temporale di 22 minuti e 53 secondi in tre lunghe sequenze sonore (magistralmente masterizzate da Simon Balestrazzi) ed è dedicato a Emilio Vedova, artista che ho avuto il piacere di riscoprire proprio grazie al lavoro di Giacomo Salis. Una figura decisiva per l’arte figurativa del Novecento, un artista dirompente, iconoclasta, sempre alla ricerca di qualcos’altro. Anche in questo caso (come in Naghol ma in tutto il corpus artistico di Salis) si ha di fronte una dialettica insanabile tra l’uomo e la materia, tra la rappresentazione del mondo e la sua negazione. Dice Vedova: «Ora non mi preoccuperò più di tagliare profili netti, angolature esatte di luce ed ombra, ma scaturirà dal mio intimo direttamente luce e ombra, preoccupato unicamente di trasmettere l’immagine senza nessun revisionismo aprioristico, cosa che per lunghi anni avevo sentito.». Ancora Vedova: “Il mio rapporto con l’opera è un rapporto di grandissimo malessere. Dipingere vuol dire trovarsi sempre senza fissa dimora, con i diavoli alle spalle che spingono avanti la tua mano, il tuo braccio, tutto il tuo corpo. Chissà che cosa si registra alla fine sulla tela: sgorbi, lava, sesso, impossibilità, sbarre, segni… un territorio imprendibile che mi cambia in continuazione davanti agli occhi come fosse abitato da un animismo tremendo”.
Beh, credo che queste riflessioni di Emilio Vedova siano perfette per capire lo stato d’animo e la profonda essenza del lavoro di Giacomo Salis: ricerca, inquietudine, alea, rischio, imprevedibilità e improvvisazione, superamento di concetti e pre-concetti. Un nuovo mondo dove suono elettronico e realtà acustica non sono più termini antitetici ma semplici punti di vista o meglio di osservazione. Un corto circuito estetico che depista, stravolge, confonde e, proprio per questo, necessario.