Editoriale di Mauro Piredda e Luca Garau
A quasi un anno esatto dalla nostra analisi sullo scontro tra l’assessore regionale Gianni Chessa e il musicista jazz Paolo Fresu in merito al click day, ecco che ora ci tocca ritornare su una nuova cuntierra tra i due: con il trombettista che si oppone all’utilizzo della sua immagine da parte dell’assessorato «perché lo slogan altisonante di una Sardegna estiva a suon di musica non collima con la volontà di sostenerla»; con la risposta dell’esponente della Giunta Solinas secondo il quale jazz e tromba non sono cultura («per me la cultura è quella identitaria», virgoletta l’Unione).
Alla base di tutto sta l’entità dei finanziamenti sulla cui esiguità è lo stesso Fresu a paventare una inutile «guerra fra poveri». È quanto dicemmo noi l’anno scorso e che ora intendiamo ribadire: «In un tale contesto di scarsità di risorse e di programmazione, è facile che si scateni la cosiddetta guerra tra poveri e gli attori del settore si trovino in un’assurda competizione l’uno contro l’altro. Le responsabilità di questa situazione sono ben riconducibili e sarebbe auspicabile per la cosiddetta scena un fronte unitario che si assuma il compito di rivendicare non la sopravvivenza, ma il ruolo centrale che il settore culturale e dell’intrattenimento deve avere».
Ora, per quanto ci riguarda, il Time in Jazz non è solo cultura, ma anche cultura sarda. Pensiamo all’idea di Fresu, peraltro premiata dal pubblico, di organizzare all’interno del festival le gare poetiche fra improvvisatori (forse il miglior esperimento in Sardegna in termini di “svecchiamento” dell’audience per ciò che riguarda le sfide in ottava rima). E lo stesso Fresu più e più volte ha ribadito lo stretto legame esistente tra l’improvvisazione jazz e quella a bolu. Sicuramente è molto più culturale l’approccio berchiddese di quello che puntualmente si manifesta sui litorali con i mammuthones in processione estiva in mezzo a cercatori di esotismo prêt-à–porter. Ma del resto Gianni Chessa è assessore del Turismo e forse il problema della cultura sta proprio nella sua subordinazione al carico antropico di massa nei mesi di luglio e agosto. Forse il problema sta nel continuo folklorizzare la cultura, come se avessimo davanti elementi immutabili da mettere in una teca e “uscire” solo per determinati eventi.
Cultura, e anche tradizione – che non si dimentichi viene da trado “consegno”, contenendo intrinsecamente l’idea di movimento – attengono invece alla sfera degli strumenti, quelli sì tramandati, ma non necessariamente da utilizzarsi negli stessi modi. E così è cultura sarda Marcello Melis che, già negli anni ‘70, ha fatto della contaminazione biunivoca il suo tratto distintivo. È cultura sarda Pierpaolo Vacca, col suo organetto tradizionale protagonista di contesti che folkloristici non sono. È cultura Alek Hidel che utilizza i suoi strumenti di semantica musicale prettamente sardi dentro la cornice dell’elettronica. E fortunatamente l’elenco proseguirebbe in mille direzioni. Riducendo dunque ai minimi termini, la cultura sarda, caro Assessore, non è l’output finale, ma l’utilizzo di strumenti che da generazioni vengono ”consegnati” all’interno della contemporaneità.
E se tra gli strumenti dobbiamo a pieno titolo inserire la lingua, forse il problema della cultura sta anche nel suo farsi veicolare pressoché sempre dall’italiano. Ecco, se quello della Cultura, di assessore, non pare brillare in contu de limba, chissà che non siano gli stessi festival a farsi portavoce di questa risorsa da valorizzare e da proporre come punto di forza. Non è difficile, se lo si vuole. Del resto il Barcelona Jazz Festival “Voll Damm”, per veicolare la sua programmazione, usa sia la lingua dello stato spagnolo (il castigliano) che quella della nazione catalana. Una cosa del tutto normale e ovvia, ma dalla quale siamo ben lontani. Un qualcosa che, in questa terra di contaminazioni sonore, darebbe inoltre un valore aggiunto alla nostra scena.