Il giovane bluesman si racconta ai microfoni di Cagliari Blues Radio Station per la rubrica Talkin’ Blues
Intervista di Simone Murru
Discorama a Bologna è un negozio di dischi che resiste e tiene aperto in centro nonostante la diffusione della musica digitale e il mercato on line abbiano preso il sopravvento sul mercato. Al suo centro trionfa una densa esposizione di dischi in vinile, sia nuovo che usato. Mi perdo tra le migliaia di titoli mentre aspetto Mirko Big Bon. Ci siamo dati appuntamento qui. Io sono in città di passaggio, lui qui ci vive. Da questo negozio, con il sottofondo di Fabrizio Poggi, Enrico Polverari e Mauro Alberghini ne “Il soffio della Libertà”, inizia la nostra chiacchiera intorno alla musica, al Blues e al lavoro, quello del musicista e quello ordinario. C’è il sole e camminiamo per il centro senza una meta fissa. È sabato quasi ora di pranzo, la gente si ritira e ci lascia la città a disposizione.
Mirko sei il più giovane musicista che io abbia incontrato in questo percorso di interviste. Come immagini il blues del futuro?
Il Blues è l’espressione dell’uomo e la domanda che sorge spontanea, soprattutto in tempi come questi, è: “noi, come individui, abbiamo futuro?”.
Questa risposta rimanda al “no future” della cultura punk? Qual è la connessione tra questa, il blues e la tua musica?
Non può esserci un processo creativo senza una reale esigenza espressivo-cognitiva funzionale a decifrare la quotidianità delle nostre azioni. Il blues è la risposta a un’esigenza attraverso l’accettazione dei fatti della vita, è resistenza e cura dei tormenti. Il punk invece rappresenta una risposta di pancia, meno riflessiva, una reazione più istintiva ai dilemmi di ogni giorno. La mia musica nasce con entrambe le attitudini. Il blues si mischia con la potenza del punk-hardcore generando in me un’unica coscienza.
Come crei la tua musica? L’ispirazione iniziale viene dal blues o dal punk?
Non c’è una regola fissa. Il mio processo creativo richiede un profondo silenzio interiore, necessario per ascoltarmi e ascoltare il mondo. Non può esserci processo creativo senza una reale esigenza espressiva e cognitiva, funzionale a decifrare la quotidianità delle nostre azioni.
Come è nato il nome Big Bon?
Nasce da un’avventura di viaggio in centro Sardegna. Qualche anno fa mi ritrovai in auto con un amico quasi senza benzina e in mezzo al nulla. Avevamo perso ormai le speranze di trovare un distributore: il viaggio finiva lì. Poi inaspettatamente dopo una curva ci apparve, come un miraggio, un benzinaio nei pressi di Abbasanta gestito da una persona particolarmente felice. Tutto ciò ci diede la benzina, la carica e l’ottimismo per continuare il viaggio. Il suo distributore si chiamava Big Bon e il nome prende spunto da questo episodio.
Come sono entrati la musica e il Blues nella tua vita?
Posso dire che la buona musica ha sempre fatto parte della mia vita. A casa circolavano i vinili di mio padre: Pink Floyd, Joe Cocker, i primissimi Genesis. I primi ascolti li devo a quelle band. Insieme a questi ha lasciato il segno la musica di Pino Daniele, compagna di lunghi viaggi in macchina nella mia infanzia. Più avanti negli anni, attraverso la Hill Country Blues di R. L. Burnside, David “Junior” Kimbrough, T. Model Ford e David ‘Fox’ Caldwell, ho colto l’anima del Blues nella sua forma più congeniale alla mia comunicazione artistica e umana.
Qual è la scena che ti affascina di più oggi?
La scena, oggi, è un immaginario in continuo movimento. Parlare di scena nella sua prima forma nativa è forse anacronistico. Considero rilevante e interessante la rivoluzione tecnologica e digitale che sta travolgendo la nostra sfera, personale che artistica, ma resto affascinato dagli interpreti e dai compositori che si muovono su uno stile semplice e diretto come quello dei musicisti citati nella risposta precedente.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
La mia ricerca continua è incentrata principalmente sulla sfera umanistica e il suo legame con la tecnologia. Abbiamo davanti un enorme sfida che sta cambiando le regole stesse della partita. Per comprenderla è necessario affidarsi all’intuito e al costante studio degli strumenti digitali in modo da poterne carpire le potenzialità. Il mondo, come lo conoscevamo anni fa, sta svanendo. Penso che avremo bisogno di nuove codificazione. Il blues dal canto suo deve affrontare questi tempi e raccontare i nuovi lavori: avere, ad esempio, il coraggio di mettere al centro una figura come il programmatore informatico al posto del bracciante o dell’operaio, perché oggi possono vivere la stessa condizione di sfruttamento e alienazione.
La musica rappresenta il tuo unico lavoro?
Considero il lavoro una prestazione professionale di qualsiasi genere. Ecco perché nella mia macroscopica visione, suonare, non è – e non sarà mai – il mio unico lavoro. Tutto ciò è legato necessariamente a una visione dove i soldi sono la conseguenza e non il fine.
Qual è il musicista a cui ti sei ispirato quando hai iniziato a suonare ?
L’artista e la persona che mi ha ispirato maggiormente è River of Gennargentu. Lo ho conosciuto prima come artista e poi come persona. Col tempo e la frequentazione è nato un rapporto di amicizia che mi ha portato a crescere e migliorare sia dal lato artistico musicale che umano.
C’è una canzone o un brano di altri che avresti voluto scrivere ?
Assolutamente no. Ogni espressione o canzone ha la sua reale forma solo nel compositore che la genera.
Hai accompagnato e suonato con diversi artisti. C’è un episodio che ci vuoi raccontare?
Una delle esperienze più belle l’ho avuta con Andrea Cubeddu nell’estate del 2018. Abbiamo partecipato entrambi al Pordenone Blues Festival. È stata una esperienza indimenticabile dove, per la prima volta, ho visto ragazzi provenienti da tutta Italia e di tutte le età riuniti da un unico motivo, l’amore per il blues. Una notte, fuori dall’osteria che ci aveva gentilmente ospitato, abbiamo cantato e suonato insieme al pubblico e i passanti fino a notte fonda senza pensare al domani. Quel momento, in cui tutto il resto sembrava dissolto, è stato qualcosa di magico. È un ricordo che porto ancora stretto nel mio cuore, e che ritengo la forma più alta di blues condiviso.
Dal punto di vista culturale cosa ti affascina del blues?
La spontaneità nel codificare le emozioni e il non dover ostentare necessariamente un’esigenza fisiologica legata ad appagare la carne attraverso la mercificazione. Il blues, come il punk, è il sottilissimo filo che lega le emozioni all’espressione. È una cultura che avvolge anzitutto la sfera umanistica e, solo dopo il mondo della musica e dell’arte.
Quali sono i tuoi gruppi o i tuoi musicisti storici di riferimento?
Senz’altro tutto il mondo della Hill Country Blues, sviluppatosi sulle colline del Mississippi, passando per gli Who, i Rolling Stones,i Led Zeppelin, i Black Sabbath, i Doors, i Creedence Clearwater Revival. In sintesi un mix tra “blues” e “rock” nella sua nomenclatura più generica.
Qual è il tuo miglior concerto a cui hai assistito?
Il miglior concerto che ho visto è stato sicuramente quello degli Who a Bologna, per il loro cinquantesimo anniversario. A quel tempo lavoravo nella logistica dei concerti come local crew e la band richiese che alcuni di noi rimanessero durante durante il soundcheck per fare da pubblico. Il palazzetto era completamente vuoto e per noi dieci rimasti suonarono “My Generation”, “Pinball Wizard”, “Who are you” e “The Seeker”, che tuttora resta per me un brano strepitoso. Un’esperienza che porterò nel cuore per il resto della vita.
Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Tantissimo Psychedelic Rock e, grazie ai consigli della mia compagna, sto riscoprendo la musica italiana moderna. In fondo ascolto di tutto in base al mio stato emotivo.
C’è un disco che ti ha segnato o addirittura cambiato la vita?
“God Knows I Tried” di Junior Kimbrough. Quel disco mi ha sconvolto emotivamente. Tutt’ora penso che resti una pietra miliare del blues.
Hai dei consigli per i musicisti più giovani o comunque alle prime armi?
Non ho dei consigli da dare ma vorrei condividere delle riflessioni: non smettete mai di esprimere le vostre opinioni, siano essere di qualsiasi genere o forma e non cadete nella pessima trappola del campanilismo; le cose che ci circondano ci appaiono come sono perché la nostra percezione ci permette di vederle in tale modo e bisogna evitare di essere accecati dalla razionalità e dalla logica, perché si rischia una presa di posizione unilaterale che genera necessariamente alienazione; un pensiero invece proattivo rende l’uomo capace di grandi cose, torniamo ad essere dei grandi “Seekers”, dei grandi ricercatori.
Grazie Big Bon, è stato un piacere. Keepin’ the blues alive
Saluto tutti quelli che hanno avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto. Il blues si nasconde dietro chitarre taglienti o “fuzzose” quanto dietro una telecaster lasciata al sole per troppi inverni. Ascoltate e condividete ciò che ha un anima: solo allora starete ascoltando blues e al centro ci sarà lo spirito dell’uomo, proprio perché “We’re not dead yet”.
Arrivano le nuvole e vado via, saluto Mirko Big Bon. E’ un arrivederci lo stesso che ti riserva questa città quando vai via. Il tempo precipita e cerco riparo prima di ripartire sotto un portico qualsiasi. Non ho fretta e aspetto che passi perchè “quando le nuvole vanno verso Bologna, piove senza vergogna!” (proverbio popolare, ndr).
Mirko Zoroddu, Big Bon, nasce nel 1992 a Cagliari. Ha all’attivo due dischi, Big Bon e The Damned Band “Blues Gasoline” e Big Bon “I’m not dead yet“(Talk About Records). È entrato nel cartellone di diversi festival tra cui il Pordenone Blues, il Piccolo Festival del Cantautore, il Corto Maltese Blues Festival.