Ad ascoltare Condemned to Insanity dei Megahera torneranno in mente i Metallica, i Testament e, lasciandosi alle spalle la East Bay in direzione New York, gli Anthrax. Vi verrà forse naturale chiedervi se siete su Sa Scena o su una sezione retromania di Metal Hammer. D’altronde, è pur sempre uno dei compiti ingrati di questa redazione apolide (di genere musicale, si intende) provare a rendere edotti i tanti o pochi sul fatto che, ad esempio, nel Capo di Sopra oltre che punk HC, vermentino e fainè, si fa anche – e ancora – del pregiatissimo thrash/power metal invecchiato in botti di rovere e sempre fresco al gusto.
Il progetto Megahera nasce nel non troppo lontano 2008, per mano di quattro smanicatissimi trashers di Sassari. Leggasi “la grande era del metal“, quella dei gloriosi anni 80 e di cui Mario Marras, folgorato sulla via di Damasco, ne ha divulgato il verbo con pia prodigalità: dalle lande sarde, passando per quelle londinesi, di certo più avvezze al metallo caldo di forgia (se l’acronimo NWOBHM non vi dice nulla fate subito ammenda), fino anche a quelle australiane. Una gavetta che, in copertina del primo full lenght, porta stampato il metaforico incrocio di chitarre da cui ha origine il fulmine (“ride the lightning“, altra ammenda se neanche questo vi dice nulla), quelle di Mario Marras e Roberto Piu per l’esattezza, un sodalizio che è anche di anime in musica e di fratellanza.
Ora, se non siete tra quelli che a sentire “Exodus” ricollegherebbero a un album di Bob Marley, rimarrebbe da affrontare l’annoso problema del “classicone” metal in salsa 4.0. Una questione di coerenza e integrità, da chi non guarda alle mode e ai calendari, le stesse che non mancano di sicuro alla brigata capitanata da Marras. La Metal Militia del capoluogo nordista deve averne consumate parecchie di discografie targate East Bay, tanto sono vari gli incastri ritmici e il cambio-marce che apre i giri del motore trash di Condemned. Il terzo periodo geologico della discografia è una vera e propria fabbrica di riffoni azzeccatissimi e forsennati, che escono dalle sei corde con tale naturalezza da istigare l’invidia più scellerata dei guitar shredders più scafati.
La varietà degli stilemi proposti nel dispiego delle tracce è notevole, con l’utilizzo di espedienti devoti ai canoni più classici, ma elevati dalla personalità di musicisti che tecnicamente sembrano non accontentarsi mai. A voler affondare il coltello ci sarebbe la durata dei pezzi, a momenti eccessiva e foriera di un effetto “grande abbuffata”: ne risente, in particolare, la seconda metà dell’album dove i nostri scelgono di relegare succulente varianti quali cavalcate power (Bipolar Mind) e ballads (Dancing in the Fire).
Allo stesso tempo, per il trasher più attento non sarà difficile cogliere certe chicche da “tutti in piedi sul divano”. Ne è egregia testimonianza, ad esempio, il cambio di ritmo in ouverture del brano omonimo: bastano un paio di colpi di cassa-crash e si finisce trascinati in un circle pit furioso, a memoria di certi indimenticabili accenti incastonati negli albori discografici dei quattro horsemen da San Francisco.
Condemned to Insanity è Il classico che va per tutte le stagioni: assoli aggrovigliatissimi, chitarre che si rincorrono senza mai pestarsi i piedi, sezione ritmica che martella e prende tutti per mano. Il tutto centellinato da una produzione che restituisce un prodotto dai suoni ruvidi nell’essenza, come di meglio non si potrebbe chiedere alla tradizione, ma ariosi e ripuliti il giusto, costantemente in marcia sulle giuste frequenze in uscita dalle casse.
Un disco per ragazzacci tutto pilsner e headbanging, per chi in generale ama ascoltare ancora il vecchio sano metallo in purezza, senza troppi se e troppi ma, e senza la pretesa di ritrovarsi tra le mani un nuovo “Kill’em All” ante litteram.