L’archeologia è un universo che affascina e coinvolge in modo particolare gli abitanti dell’isola di Sardegna che vivono in un ambiente in cui tutto rimanda a storie e miti del passato. Migliaia di nuraghi, domus de janas, tombe di giganti, nuovi giganti che appaiono all’improvviso e che ci continuano a stimolare nel frugare i lati più oscuri della materia. La cosa più naturale sarebbe quella di buttarsi sui volumi scritti dagli archeologi per cercare di far luce sui tanti misteri di questa terra, ma dopo poche pagine ci rendiamo conto che quella scrittura è altrettanto criptica e poco commestibile quanto i misteri che vorremmo chiarire. Come quando leggiamo i risultati della nostra risonanza magnetica e ci sembra di leggere una condanna a morte, mentre in realtà è tutto a posto. Linguaggi esclusivi, esoterici, misteri che solo gli addetti alla materia riescono a governare e arriva naturale quel senso di frustrazione che ci porta a guardare altrove. Per fortuna esistono altri modi per accedere alle conoscenze e renderle più umane, più alla portata di chi non è un super esperto della materia. È quello che fanno i bravi divulgatori quando ci rendono, con parole ben calibrate e la giusta rappresentazione, quello che altri hanno raccontato in una lingua ai più sconosciuta. Ma è soprattutto quello che fanno gli artisti quando si cimentano nella creazione di mondi e di narrazioni che in qualche modo riempiono quel tragico black out di conoscenza.
È quello che ha fatto Sergio Atzeni in un guizzo di follia e immaginazione extrasensoriale nel suo Passavamo sulla terra leggeri… che ci restituisce una Sardegna in cui ci piace perderci e sognare, un luogo magico e incantato che forse non è così distante da quello descritto dagli archeologi con i suoi riti, le sue feste, le danze, le musiche. Quelle musiche che purtroppo possiamo solo immaginare e ricostruire con la fantasia: plausibile che ci fosse il suono delle lunghe canne (almeno nella fascia più meridionale dell’isola) testimoniato da quel fantastico bronzetto nuragico che suona felice. E poi le percussioni, i tamburi, qualche corno in cui soffiarci dentro e infine le voci. Queste sì, sempre presenti nella nostra lunga tradizione musicale: voci di uomini, da soli o in gruppo, di donne, di giovani e di anziani, della natura e degli animali, in tante forme e infinite varianti.
Il nuovo progetto musicale di Matteo Muntoni, pubblicato da S’Ard alla fine del 2022, si infila proprio in questa stimolante vacuità occupando uno spazio che aveva bisogno di essere re-immaginato e costruito. Era da qualche anno che Muntoni metteva a fuoco questa ipotesi sonora che ha finalmente definito grazie al supporto delle voci di Francesca Corrias, Federica Muscas ed Elisa Zedda, di Raffaele Pilia che si occupa delle chitarre e dei suoni, di Antonio Pinna che batte i suoi tamburi con piglio primordiale e Simone Soro che svolazza giulivo col suo magico violino. Ma il Maestro Cerimoniere è Matteo Muntoni che suona il basso e persino la chitarra, ha composto tutti i brani e dirige da capo tribù tutta la situazione. Il disco è diviso in due parti: la prima si chiama NUR dedicata alla grande storia dell’isola, ai suoi monumenti, alla magia e al mistero che si sprigiona dai grandi agglomerati basaltici, dai pozzi sacri, dalle cavità ricavate dalla pietra. La seconda parte è BISU ed è incentrata sulle suggestioni che questa civiltà ci ha trasmesso tramite i suoi abitanti e le sue storie fatte di riti ancestrali, leggende, feste e usanze che ancora oggi si ripetono come per magia.
Ancora una volta Muntoni ricorre a una sua vecchia ossessione: quella del concept album, ovvero un insieme combinato di suoni e idee che solo nella loro globalità hanno ragion d’essere. Un format a cui è ricorso diverse volte nella sua carriera: nel tributo a Morricone registrato con il Piccolo Ensemble Elettroacustico, nei dischi dedicati a Kubrik, a Caravaggio, all’epopea di Radio Luxembourg. Roba vintage che sembra fuori tempo massimo in questa realtà liquida e frammentata ma che invece è un bel guizzo di coraggio artistico e professionale. L’ascolto di NUR-BISU ci consegna una musica senza tempo e leggermente fuori fuoco, eterea e labile nel suo incedere, analogic dreamwave che arriva da un mondo che ancora ci appartiene e in cui è piacevole perdersi. Le voci sono l’elemento cardine di questo lavoro e fanno da traino a tutta la struttura organica dei brani, il resto è un meditato contrappunto sensoriale, una soffice coperta di suoni che lascia ulteriore spazio all’immaginazione nel suo essere discreta (discreet) e mai invadente. Mi sento di poter affermare che questi suoni potrebbero essere la giusta colonna sonora delle intuizioni di Sergio Atzeni e di tutti quelli che in qualche modo hanno cercato di dare nuova luce alla storia di quest’isola e sarebbe perfetta anche per accompagnare un testo sacro come La Civiltà dei Sardi di tziu Ninnu Lilliu. Sono sicuro che gradirebbero.