Il banjo non è progettato per essere uno strumento della tradizione musicale in Sardegna, ma lui non lo sa e decide di suonare folk lo stesso. Se si pensa a questo strumento a corda, originario dell’Africa e che negli ultimi anni è protagonista di un percorso di rinascita anche fuori dal bluegrass, il pensiero corre immediatamente a precise latitudini e ambienti degli Stati Uniti, come la Louisiana o i momenti in cui Andy Bernard sfoggia il suo fingerpicking in The Office.
Matteo Carta, invece, ha scelto di essere pioniere, di ritorno da Londra in Sardegna per occuparsi di pastorizia, trascrivendo l’immaginario del folklore isolano nelle quattro composizioni strumentali presenti nell’ep King Shepherd and the Lost Sheep. Il disco, il cui titolo strizza l’occhio alle ballate e al tema del mito, propone brani in cui il banjo, accompagnato da percussioni e chitarra classica, è voce narrante di atmosfere ancestrali, sviluppando intrecci che rievocano rituali, paesaggi parzialmente scomparsi e che sono profondamente influenzati dalla cultura agropastorale e dalle scene di transumanza e vita lenta. Le tracce propongono un tema centrale che viene sviluppato in maniera minimale e incardinato su pochi accordi e suoni che vengono ripetuti in maniera ipnotica e ossessiva per tutta la durata della canzone.
Il lavoro, a partire dalla scelta dei titoli (Uddadhaddar Ritual Battle, Dust to the wind, Wild Steppa e Agreste), si può collocare nel filone del romanticismo neo folk sardo, con l’intento di recuperare elementi della tradizione rurale e dare nuova linfa alle radici. Un’insolita veste contemporanea, che rompe gli schemi tradizionali per plasmarli e offrire una prospettiva innovativa, nel solco di un percorso tracciato recentemente e recentemente da artisti come Ilienses, Paolo Angeli o del Die di Iosonouncane. Il suono del banjo, talvolta monocorde e suonato in modo essenziale tradisce un approccio proto-punk e blues, dimensione da cui proviene Matteo Carta, ma che permette di immergersi pienamente in atmosfere agresti, dal sapore atavico e di cui abbiamo perso il legame intimo e spirituale.
L’album, che può definirsi un unicum sulla scena, è stato pubblicato lo scorso 8 dicembre per l’etichetta piemontese Kono Dischi, ed è stato integralmente suonato da Matteo Carta. Le registrazioni sono a cura di Fabrizio Sanna, mentre il progetto grafico è a firma Volver Creative Studio.