Chameleon Tongue – Mano de Mono

Marco CherchiMusica, Recensioni

Che la morfologia del territorio sardo sia fonte d’ispirazione per le neo stoner-band almeno quanto lo sono stati i campi di papaveri per gli impressionisti francesi lo dimostrano dischi come Chameleon Tongue dei . Un nuovo arrivo sulla scena che sfiderebbe la presenza di una fauna mammifera ormai acclimatata (Elepharmers, Bentrees, Black Capricorn) se non fosse per la naturale dote di cambiar cute del rettile del litorale nord-orientale che fa oscillare lo spettro cromatico tra l’arancio-fuoco delle valleys e i toni bourbon del southern-rock stellestrisce. Non è un caso se sulla piccola perla delle Baronìe abbiano puntato subito gli occhi Marco Nieddu e soci e sia stata piantata la bandiera della all’approdo sull’inesplorato lido rock.

Nell’estate 2020 i Mano de Mono si apprestavano a spingere poderosi valvolari sotto il sole  cocente di Capo Comino per allestire la scenografia di una desert session improvvisata, un biglietto da visita al mondo sabbioso del capo di sopra (e non solo) scandito da chitarre corrosive e dalla voce di Andrea “Athos” Cherchi a riecheggiare da valle a valle.

Tutto rimandato causa pandemia, ma rimane l’intuizione dei nostri di fare di necessità virtù, lanciare in volo un drone non sarà l’albatross dei Corrosion of Conformity, ma poco importa e confezionare la prima fotografia a colori della barbutissima prole di Barabba (dal titolo del primo singolo). É qui che facciamo subito la conoscenza di Athos e della sua mascella protesa in avanti a stringere i denti e mostrare il grugno, a impreziosire una timbrica già di per sé possente e ruvida, sempre in primo piano: immaginate un Phil Anselmo prestato all’hard rock che incontra Zakk Wylde nei passaggi più ragionati e “pomeridiani” dei pezzi.

Il disco ingrana il passo su toni hard rock (Old Tired Tree, , Lying Bones) dando corda a chitarre e crash a evocare lo stoner meno acido e più rockeggiante (Orange Goblin e Karma to Burn, tra i tanti) mentre, nei passaggi lenti riservati alla sola Strength Flow   riaffiorano in superficie le note kyussiane più desert. Il quartetto non sembra voler mai rinunciare al treno di chitarre distorte che richiama tanto all’heavy (Space Comanche) quanto a un certo grunge crossover che avanza cadenzato con ancora addosso la sua sempreverde patina polverosa (Ruins, Easy to fall). Un folto indice di riferimenti bibliografici che riescono a convivere in scaletta senza pestarsi i piedi e, addirittura, a spalleggiare all’interno del medesimo brano, grazie a un approccio classico quanto dannatamente concreto alla composizione.

Chameleon Tongue apre le porte alla stagione del solleone, non quello da aperitivo o tintarella, ma quello che frantuma e riduce la materia in sabbia, adatto solo ai vertebrati dal sangue algido, che annichilisce e rattrappisce ogni forma di vita vegetale degradando l’orizzonte in lontananza. Una prova energica, di muscoli e cuore per la formazione rettiliana, impegnata a picchiare duro sugli strumenti per farne dilavare l’eco dalle sponde tirreniche fino ai porti affacciati sul canale di Sardegna. Ottima prima uscita al sole e, citando gli Orange Goblin in un loro noto cammeo strumentale dal titolo italofono, ​​«In bocca al lupo» (The Wolf Bites Back, 2018).