Se c’è un dio che li ringrazi. Perché siamo già dentro l’ennesimo autunno condito dall’insipidissimo slogan “saperi&sapori”; perché siamo dentro le sagre della purpuza vendute (a chi?) come “La Sardegna più genuina” che chi is àteras fessint burdas. E perché così stando le cose ci ritroviamo fuori da una realtà variegata e crossover che fa di questa terra un…continente? No, l’ha già detto Astrosamantha Cristoforetti. E poi qui si parla di un paesaggio visto dal basso, percorrendo una strada, mica della Sardegna intera fotografata dalla Stazione spaziale internazionale, da dove non si vede la “sulcitana”, la statale 195 del nostro profondo sud.
Insomma, questo paesaggio, discrepante quanto vogliamo ma genuino su pròpiu, oggi è con un disco che ce lo possiamo godere. E i Malignis Cauponibus l’hanno fatto uscire, atonginos su pròpiu, il 30 settembre. Con l’autunno che è anche un concetto che ben ritroviamo caminu andande in questa chentunorantaghimbe tra incursioni radio dell’omonima stazione e un andamento sonoro cinematografico che sposa la percezione di una realtà antropologicamente connotata dallo scibile industriale decadente già da un pezzo (sarebbe sufficiente perdersi nell’artwork del disco) e dalla sabidoria delle acque fluviali che non devono essere provocate.
Se le parti ritmiche e i respiri lirici paiono farci soffermare sulla caratteristica contrastante del contesto raccontatoci, sax, vibrafono e tappeti sonori mettono le ruote al nostro viaggio in questo lembo estremo di Sardegna. I diversi background del quintetto emergono in tutta la loro essenzialità («from jazz to trad and electronic music, experimenting with an abrasive visceral blues to listen without prejudice», per dirla con parole loro), ma la sintesi raggiunta da Luca Marcia (voce e chitarre), Marco Caredda (batteria e vibrafono), Fabio Tidili (drum machine, synth e tastiere), Massimo Loriga (sax e armonica) e Andrea Schirru (tastiere) ci regala unicità, concordantia.
Approccio crossover anche nell’opzione linguistica, non solo per gli innesti franco-britannici sulla pianta autoctona, ma anche per l’idea di pescare a piene mani dal nostro continuum dialettale. Anche qui, magari involontariamente, si fa a bisera l’idea che sia qualcosa di “più genuino”, di più balente. E forse lo stesso linguista Wagner che, peggio, non esitò a dividere persino gli uomini, «il sardo dei monti» dal «suo fratello della pianura»: «Mentre questo – scrisse su tedescu – è di statura piccola, colorito pallido, carattere servile e tradisce chiaramente l’impronta spagnola, il sardo delle montagne è alto, il sangue gli si gonfia e ribolle nelle vene».
Ecco, stiamo parlando di un prodotto culturale a tutto tondo, con dei messaggi non tanto nascosti e una denuncia del subìto in nome di un nuovo e più armonico vissuto. Un prodotto di cui abbiamo bisogno per non essere genti allena in terra nostra, a prescindere dalle stagioni.