Il racconto della venticinquesima edizione del festival
Foto di Daniele Fadda
Si è rinnovata anche quest’anno la magia di Isole che Parlano, manifestazione che dalla bellezza di 25 anni, con coraggio e una punta di follia, continua a portare avanti una proposta musicale e umana che travalica i confini del festival come lo abbiamo sempre inteso, andando a scovare le sintesi più ardite e riuscite tra tradizione e innovazione, contaminazione e autenticità, sperimentazione e fruibilità. Ogni anno il programma è per il pubblico una continua sorpresa che ne appaga la curiosità e lo spirito di esplorazione, un perpetuo esperire e scoprire musiche, luoghi e culture, che difficilmente lasciano insoddisfatto anche l’ascoltatore più pretenzioso.
Quella per le location individuate dalla direzione artistica è la prima sorpresa che investe lo spettatore: angoli di un territorio immaginifico, dall’entroterra di Palau alle spiagge dell’arcipelago della Maddalena, scelti con cura per ospitare e, allo stesso tempo, ispirare gli spettacoli musicali. I concerti partono così la mattina di giovedì con l’esibizione del sassofonista Marcelli Bayer, nella spiaggia di Talmone a Palau, e proseguono nel pomeriggio a Punta Tegge, a La Maddalena, con l’esibizione in solo di Gavino Murgia, introdotta dalle parole di Paolo come “sintesi perfetta tra tradizione e innovazione”. La scelta dell’isola, in un festival che fa parlare le isole, non è certo casuale, e il mediterraneo, le distanze, i confini, geografici e politici, riecheggiano nell’esibizione del sassofonista nuorese, sostenuta dal rumore della risacca e del vento che fa frusciare i microfoni. Tra i soli free di sax soprano e tenore, Murgia inserisce i suoi soliti vocalizzi gutturali, basi elettroniche ambientali e anche un dillu suonato con il sulittu, fino al bis – invocato a gran voce dagli spettatori sparpagliati sulla scogliera – con Migrants e una preghiera di “attenzione per chi scappa da un futuro allucinante”.
In serata si inaugura la mostra di Francesco Cito, intitolata Wide Gaze (Un ampio sguardo), con una selezione di oltre settanta immagini scattate durante oltre trent’anni di carriera, dal 1978 al 2009, tra guerre, malavita e fenomeni sociali, esplorati con ottiche grandangolari e uno sguardo mai scontato sull’umanità dei protagonisti, come è emerso anche nella lunga chiacchierata con l’autore che è seguita all’inaugurazione.
Il rischio pioggia fa saltare tutti i concerti previsti per la giornata di venerdì: quello dei Campanari di Locusantu con Gavino Murgia viene annullato, mentre gli Ilienses con il Tenore Murales di Orgosolo e Caterina Palazzi & Sudoku Killer slittano alla giornata successiva sul palco del Cine-teatro Montiggia, scelta che, nella sfortuna del maltempo e nel rammarico per la rinuncia alle spiagge di Palau, si rivela comunque salvifica. Ilienses e Tenore Murales di Orgosolo trovano nell’oscurità del palco l’ambientazione ottimale per la loro performance, incentrata su una riproposizione delle tradizioni musicali della Barbagia – con un particolare focus sulla realtà gavoesa – e impressa sul loro primo lavoro, Civitates Barbariae. Una proposta inusuale per la formula scelta e originale per le scarse affinità con quanto sentito finora in ambito di rielaborazione del repertorio tradizionale in chiave jazz-rock. Cosa che ha portato Paolo e Nanni Angeli a volerli al festival anche dopo la defezione dello scorso anno. La line up vede un normale terzetto jazz, formato da Mauro Medde al basso elettrico, Alberto Ferreri alla batteria e Alessio Zucca alle tastiere, coadiuvato da Natascia Talloru alla voce e, eccezionalmente per l’occasione, dal Tenore Murales di Orgosolo. Il palco però è cosparso di strumenti tradizionali, come tumbarinos, pipiolos, tumborro, triangulu, sonagias e pipiolos, suonati di volta in volta da musicisti diversi, dalla tastiera partono innesti elettronici, e sin dalle prime note è evidente che non si tratti delle solite formule. Jazz e prog, tempi dispari, escursioni post rock fino al crossover, in cui si alternano, compenetrandosi, ritmo e dilatazione, voci e suoni, antimilitarismo e poesia, epica, etnica e pathos. Il concerto si avvia al finale così com’era iniziato, con il ritmo dei tumbarinos, il suono dei sonagios e i vocalizzi dei tenores, chiudendo un ciclo che, nonostante sovrapposizioni e variazioni anche estreme, mantiene continuità e una certa coerenza narrativa che strappano lunghi applausi.
Qualche ora dopo a salire sul palco del Cine-teatro è Caterina Palazzi con il progetto Sudoku Killer che, accompagnata da Giacomo Ancillotto alla chitarra, Sergio Pomante al sax tenore e Maurizio Chiavaro alla batteria, presenta il loro ultimo lavoro Asperger. Ogni brano del disco è incentrato su un cattivo della Disney e prova a esplorarne le sfaccettature emotive: la loro volontà di fare del male, ma anche le mancanze che ciascuno di loro reclama al mondo e che li portano a essere quello che sono. La loro proposta spazia dal noise al math al jazz-core e non è di facile collocazione, ma la definizione che meglio li rappresenta è quella data da Caterina stessa nell’intervista rilasciata a Sa Scena: “troppo rock per i circuiti jazz, e troppo jazz per i circuiti rock”. Vista la ridotta capienza del teatro e il pubblico accorso per sentirli, decidono di eseguire due set, uno dopo l’altro. I lungimiranti – noi compresi – se li sparano entrambi e vedono passare così in rassegna Grimilde (la strega di Biancaneve), Gaspare e Orazio (tirapiedi di Crudelia De Mon nella carica dei 101), Medusa (la cattiva di Bianca e Bernie), Edgar il Maggiordomo (dagli Aristogatti) e Malefica (la strega della Bella addormentata nel bosco). L’esibizione alterna momenti ritmati, lineari, dissonanti, armonici, fiabeschi e sincopati, in un susseguirsi di battute sussurrate, urlate, singhiozzate o affannante. Il silenzio, le pause e i break sono utilizzati come elementi squisitamente musicali, spesso violenti, e scandiscono l’altalenare di rabbia, angoscia e leggerezza che accompagna entrambi il set. I passaggi un momento sono facili da cogliere, il momento dopo sono sfuggenti, scontornati, quasi indecifrabili; perché la musica dei Sudoku è profondamente emotiva, estemporanea, ben definita e improvvisata solo entro certi limiti. Tutto è evocazione e narrazione, Mingus docet: l’impostazione rappresentativa, la forte leva sulle dinamiche e l’uso dei suoni conferisce all’esibizione una veste cinematografica, con tutto il necessaire cinofilo, atmosfera, colpi di scena e suspense.
Come da tradizione, la mattina seguente ci si sposta alla Chiesa Campestre di San Giorgio, dove Davide Ambrogio, giovane musicista calabrese, intervistato da Paolo Angeli, illustra il suo disco Evocazioni e Invocazioni, poco prima di darne dimostrazione pratica. Studioso delle musiche e dei canti tradizionali della sua terra (e non solo: prima del set improvvisa con Paolo e Nanni una tasgia di Aggius), le reinterpreta con piglio moderno, affiancando a strumenti millenari, elettronica, basi, loop e spoken word. Tra preghiere a Santa Rosalia e San Michele, canti profani e ninnenanne, suona la pizzica, la zampogna, la lap steel, declama poesie e filastrocche, parla di storia e politica (“Abbiamo perso la memoria del XX secolo”), ma soprattutto canta con una voce incredibilmente cristallina, potente e delicata insieme. “Principio primordiale e comune a tutti, la voce rappresenta il mezzo più autentico per indagare se stessi in profondità e per comunicare con gli altri”. Indagare lo scopo del canto si palesa così come obiettivo della sua ricerca e la sincerità degli intenti si traduce in esecuzioni emozionanti, in grado di avvicinare anche gli ascoltatori più distanti. Forse uno degli scopi indagati può già dirsi compreso e raggiunto. Anche in questo caso la scelta della location e degli invitati non è stata casuale. Infatti sono presenti a San Giorgio anche i membri del Cuncordu Bolothanesu e di quello di Orosei, che intonano dei canti durante il pranzo e seguono Paolo Angeli quando imbraccia la chitarra e li invita a seguirli con il suo canto gallurese.
Il maltempo fa saltare la sonorizzazione della Roccia dell’Orso e i canti a Cuncordu vengono trasferiti alla Fortezza di Monte d’Altura. Qui i due cori presenti a San Giorgio si alternano nei propri repertori, prevalentemente profano quello dei bolotanesi e più liturgico quello degli oroseini, ma entrambi di grande impatto, anche grazie alla differente varietà armonica che distingue il Cuncordu dal più famoso canto a Tenore.
La sera viene allestito un palco sulle sabbie del piccolo istmo che collega il Faro di Palau Vecchio alla terraferma. In primo piano due theremin, di fianco una batteria e un organo, e dietro due banchi zeppi di giocattoli, cavi e strumenti elettronici. È il set degli Ooopopoiooo, progetto nato proprio durante un’edizione passata di Isole che Parlano, quando Paolo Angeli chiese alla violinista Valeria Sturba e al polistrumentista Vincenzo Vasi di provare a fare qualcosa insieme. I due ci presero gusto e diedero forma così al progetto, ripresentato quest’anno in veste “orchestrale” con Giorgio Pakorig all’organo e Filippo Sala alla batteria. Vestiti di strass scintillanti, si presentano con uno space pop raffinato scandito dalla voce angelica di Valeria, ma subito la cosa evolve in un meltin pot di jazz-rock e cabaret, con storie di topi e deliri vari, giocattoli usati come strumenti, scat e voci effettate. Degli sgargianti cartoni animati viventi, che suonano tutto quello che gli passa a tiro, trasformando il concerto in una Melevisione sotto acido. La musica stessa degli Ooopopoiooo è tutto un bellissimo gioco fatto da bambini adulti, abili tanto con gli strumenti e l’elettronica, quanto con la curiosità e la fantasia. Un gioco che però sa farsi anche molto serio, quando la musica si prende la scena ed emergono le capacità compositive del duo e le loro doti vocali, per estensione, tecnica esecutiva, timbro e interpretazione. Ecco quindi Mister theremin, brano obbligato, le reinterpretazioni de La partida di Victor Jara e di Self-portrait in three colors di Charles Mingus, Bar Berio, schizzatissimo pezzo dedicato al compositore ligure, fino al bis con la scintillante Elettromagnetismo e libertà. Tutto molto incatalogabile e altrettanto meraviglioso.
Tra le ovazioni del pubblico, lasciano il palco ai Seward, formazione a due chitarre, sax e batteria proveniente da Argentina, Venezuela e Spagna, anch’essa difficilmente inquadrabile: dream pop sognante, shoegaze, lirismo, noise, free jazz, dissonanze in un delicato ma stabile equilibrio, giocato tutto sulle intese e le dinamiche. Una roba che potrebbe venir fuori da una session, alcolica e simultanea, di My bloody Valentine, Birthday party, Pavement, Primus, Antony Hegarty, Devendra Banhart e Sigur Ros. Un lunghissimo abbraccio ai piedi del faro prima dell’approdo sul palco, dove emerge sin dai primi passaggi un ipnotico Adriano Galante, trascinatore della band, tra chitarra, banjo e un’incredibile varietà vocale, dal falsetto alla lirica. Tutto il resto è pura bellezza: la gioia di Juan Rodriguez Berbín, che dalla batteria regala sorrisi a chiunque per tutto il concerto, l’austerità del secondo chitarrista, Pablo Schvarzman, il trasporto totale di Marcellí Bayer al sax. Tutti ballano, ognuno a modo suo, totalmente immersi nei propri suoni, canzoni solo apparentemente destrutturate, melodiche e sincopate, nelle quali tutto però torna con una semplicità disarmante. Un altro brillante esempio di come questo festival sia in grado di coniugare cosmopolitismo e ardore musicale, riuscendo a concedere ampio spazio anche al rock e alle sue divagazioni, cosa non scontata. Apice dell’esibizione, la chiusura: tutti smettono di suonare e lasciano il finale ad Adriano, che, senza smettere un attimo di suonare e cantare, prima stacca il banjo, poi si allontana dal microfono dirigendosi verso il mare. Il pubblico a bocca aperta lo vede immergersi con lo strumento ancora in mano e sparire nel buio del mare, nota il banjo galleggiare mentre echeggiano in lontananza le ultime parole prima che anche la testa sprofondi. Silenzio e sipario.
Il prato inglese delle Cantine la Contralta ospita il concerto del mattino successivo: allo Stazzu Le Saline si esibiscono i Freak Motel, altra giovane formazione sarda fortemente voluta dalla direzione artistica anche per questa edizione, dopo la rinuncia forzata dello scorso anno. La line-up vede Matteo Sedda alla tromba, Andrea Sanna al Fender Rhodes, Nicola Vacca alla batteria e Andrea Parodo al basso. La loro formula si colloca in ambito fusion, con una forte connotazione jazz-rock di matrice eighties, che tanto ha influenzato i primi sperimentatori del post-rock. I ragazzi sono in gran spolvero e regalano ai presenti un live secco e potente, con brani del loro omonimo disco d’esordio e qualche notevole anticipazione del nuovo lavoro, previsto per il 2022.
Nel pomeriggio appuntamento al Porto di Palau, destinazione Isola di Spargi, una delle perle naturalistiche dell’arcipelago, dove i quattrocento accorsi trovano un piccolo set allestito sulle rive di Cala Corsara per il progetto The Stolen Cello, che vede Redi Hasa al violoncello e Rocco Nigro alla fisarmonica. Il nome della formazione viene dalla trafugazione temporanea dello strumento dall’Accademia di Tirana, da parte del violoncellista albanese, in fuga dal Paese durante la crisi conseguente alla caduta di Hoxca, per sostenere l’esame d’ingresso al Conservatorio di Lecce. Anche qui due sponde che si incontrano. I due iniziano a suonare durante il tramonto e presentano l’omonimo lavoro discografico uscito lo scorso anno, fortemente autobiografico e capace di fondere le sue esperienze passate – tra tutti Alva Noto, Akin Sevgör e Ludovico Einaudi – con le struggenti ambientazioni melodiche dei Balcani, quindi anche totalmente immerso in quel mare che sta a qualche metro dai loro piedi e che avvicina le coste di Salento e Albania.
Il Faro di Palau Vecchio fa da sfondo anche all’ultima esibizione della domenica, quella del trio sloveno Širom, formato dai polistrumentisti Iztok Koren, Samo Kutin e Ana Kravanja. Il loro armamentario è costituito da ikitelia, ghironda, tampura brač, lyra, ukulele, banjo, chimes, balafon, gamelan, tutti strumenti più o meno tradizionali, buona parte dei quali autocostruiti. Paolo, nell’introdurli, descrive la loro musica come un “folk immaginario, senza frontiere”, e sin dalle prime note la definizione sembra calzare a pennello. Non solo musiche Mitteleuropee, ma soprattutto suoni e armonie primarie, a tratti ancestrali ed eseguite con un piglio estremamente attuale. Una roba difficilmente inquadrabile nel tempo e nello spazio: minimalismo e ritmi circolari che a tratti ricordano i Radiohead, a tratti Tame Impala, Goat, Tinariwen, spesso contemporaneamente nello stesso brano. Fiati, corde, pelli, che fischiano, rintoccano, battono senza soluzione di continuità, in un flusso musicale ipnotico e avvolgente, tra composizioni e improvvisazione, durante il quale vengono eseguiti tre soli lunghi brani. Gli inserimenti vocali di Ana sono alienanti e il rumorismo è spinto agli estremi, ma sempre funzionale alla musica, che è soprattutto ricerca materica, esplorazione delle possibilità che ha la meccanica di trasformarsi in suono.
Il festival sarebbe dovuto concludersi qui, ma ci sono ancora due spettacoli da recuperare. Il primo è quello del duo inedito, voluto da Paolo e formato da Valeria Sturba e Caterina Palazzi, ognuna al proprio strumento, rispettivamente violino e contrabbasso. Il set viene allestito la mattina sulla riva di Cala Martinella, sempre in territorio di Palau: una piccolissima insenatura con un molo, una rimessa per barche e qualche scoglio. La poca sabbia presente non basta per tutti, ma la giornata è perfetta e i presenti prendono posto sui banchi di alghe, sulle rocce e in acqua. L’esecuzione è totalmente improvvisata, giusto qualche scambio prima del concerto e pochi cenni di intesa durante: Valeria conduce il gioco, Caterina segue e accompagna, il mare fa il resto. Ne viene fuori un’esibizione delicata, in punta di piedi e di archetto, quasi rispettosa di quella cornice, dei suoi suoni, dei suoi silenzi. Chiusura perfetta e in un certo modo emblematica.
E fino a questo punto la cronaca, perché quello che non traspare dalla successione degli eventi e dall’anamnesi musicale della manifestazione – e che si può percepire soltanto vivendola – è il suo profondo senso umano e culturale, che riesce a far convivere, senza forzature e in maniera genuina, territorio, contenuti sociali e autenticità musicale. Isole che parlano è più di un semplice festival musicale, è un’esperienza totale che trascina il fruitore fuori dalla sua consueta bolla di semplice ascoltatore, inglobandolo all’interno di un unico marasma umano fatto di organizzatori, tecnici, musicisti e ospiti, senza compartimenti stagni, senza limiti, senza costrizioni. Chi arriva a Isole per la prima volta, coglie immediatamente questo clima e si ritrova a farne parte senza nemmeno doverci pensare, senza capire come e perchè. Tutti allo stesso modo, nessuno e niente esclusi, soprattutto la musica. E non è solo grazie all’incredibile sensibilità della direzione artistica nello scegliere gli artisti e i progetti, capace di combinare ogni sorta di genere, soddisfare anche le orecchie più ortodosse, stimolare quelle più aperte, mantenendo però una coerenza di fondo che è l’essenza stessa della manifestazione. Ed è proprio in questa coerenza, dettata dallo spirito di chi vi partecipa, pubblico, artisti e staff, dagli scambi umani che le situazioni permettono e agevolano, che la manifestazione trova la sua dimensione musicale e umana. I minuti non sono mai contati, i concerti sono preceduti da incontri e presentazioni, alla loro conclusione è sempre possibile bere un bicchiere di vino, sostare e chiacchierare. Nascono così vere relazioni tra musiche, culture e persone, la contaminazione non è più solo una bella parola con cui lustrare i cartelloni, ma una vera e propria motivazione, prima, dopo e durante gli eventi. A Isole nascono i progetti e le collaborazioni più felici e improbabili, come gli Ooopopoiooo o, chissà, il duo Sturba-Palazzi. I musicisti vanno a Isole con tutto il loro bagaglio umano e culturale (The Stolen Cello, Davide Ambrogio, Širom, Ilienses), non ne fanno mistero, lo condividono, si confrontano, si divertono e si esaltano (Seward, Sudoku Killer) E tutto questo, pensate un po’, è veramente spontaneo. E quando un processo così articolato e sfaccettato avviene in maniera non artefatta, il risultato lascia sempre a bocca aperta. Ma le testimonianze servono solo fino a un certo punto, l’unico modo di comprenderla davvero è esserci. E chi c’è stato sa bene che questa è tutt’altro che piaggeria. Quindi, se volete regalarvi un’esperienza importante, siateci il prossimo anno.