Copertina di Lievi Favole, tributo a Gavinuccio Canu

Lievi Favole

Enrico Melis CostaMusica, Recensioni

Nel marasma post-digitale che infesta la nostra epoca è all’ordine del giorno la pratica di riscoprire artisti del passato, annidati in ogni angolo di un globo ormai mappato da cima a fondo e il cui valore spesso è riconosciuto solo postumo. Non solo perché precedenti all’etere di interconnessioni tra fissati di musica, ma spesso anche perché macchiati dell’unica colpa di vivere un universo artistico del tutto personale. E se anche può sembrare, qui non si ha un Daniel Johnston à la sarde.

Infatti, era non solo la voce degli storici Atro, pioniere di un intero filone made in UK – dall’art punk settantottino alla megacompilation “C86”, per intendersi – che nell’Isola si sentiva poco. E nemmeno solo un artista che aveva ancora tanto da dire in un panorama saturo come quello cantautorale. Canu era “unico e raro, travolto da una passione trasparente e incondizionata per tutto quello che potesse apparire assoluto, atemporale e profondo”, come spiega un altro nume tutelare della new wave sarda e italiana quale Davide Catinari dei Dorian Gray.

Oggi nell’ascoltare “Lievi Favole”, doppio LP assemblato dall’Associazione Culturale a lui dedicata dopo la prematura scomparsa di due anni fa, è impressionante cogliere questa ricchezza creativa tra le tracce del primo disco. Tredici demo in bassa fedeltà, suonate, registrate e poi custodite fra i cd di casa sua da Canu stesso, quasi mai portate dal vivo. Se di solito una post-produzione carente ostacola l’ascolto, è in realtà proprio in tutta la loro sporcizia solitaria che mostrano la loro cruda e viscerale risonanza. Ad animare la poetica gavinucciana fatta tutta di chitarra e voce, a volte accompagnata da echi sintetici e drum machine gracchianti, è uno spleen generazionale dannatamente post-punk. Lo stesso in cui si riconobbero tutti i giovani precipitati in quel no-future premonito nel ‘77, o come gridava a squarciagola Jaz Coleman sullo sfondo di una diabolica Maggie Thatcher, “we’re livin in the 80s”. Da-da-da-dan.

Se l’alba della fine della storia è dove pianta radice, Canu non si è fermato lì e ha trascorso quattro decenni arricchendo le originarie ispirazioni: il filo rosso di cui parla sempre Catinari, che unisce i pronipoti di quel soundscape con i suoi originatori, è parte indissolubile di una visione artistica che va oltre i generi. Lo si nota già dal lato A, che oscilla tra influenze neo-folk (“Cosa c’è di più bello”, “Sottosopra”) e ovvie suggestioni darkwave (“L’ora limpida, “Forse a vent’anni”), con momenti sorprendenti quali l’inatteso tocco pop della title-track, la struttura doo-wop di “Proteggimi” o ancora l’incedere coldwave di “Arriva l’onda”, che non farebbe strano trovare in una playlist sovietcore su Youtube. Non che il lato B sia da meno, con un alternarsi delle ispirazioni sopracitate che valorizza brani cantautorali ed enigmatici (“È mattina presto”, “Simboli”) come anche cristallini inni post-punk (“Rispondimi”, “Piatti di plastica”), riservando anche qui perle nascoste nei suoni simil-barocchi di “Scioglile i capelli” o l’aria stranamente country di “A piedi nudi”. 

Mentre il primo disco offre uno spiraglio sulla complessità di un artista così versatile, è con l’impresa fatta sul secondo disco che si capisce il potenziale delle sue idee. Con l’adesione di veterani della scena su cui Canu ha impresso un indelebile segno, il secondo LP è un omaggio collettivo reinterpretato secondo gli stilemi dei singoli artisti, ma in un fedele recupero che realizzi appieno il concetto dietro ogni brano. “Noi che siamo stati pionieri abbiamo il dovere di narrare questa storia”, afferma l’ex Diaframma Miro Sassolini, e del resto “Gavinuccio è stato un alfiere di questo”, come aggiunge Mauro Ermanno Giovanardi dei LaCrus.

E c’è chi è rimasto fedele alla linea del grezzume lo-fi, come Lilith dei Not Moving e Cesare Basile con la no-wave dissonante di “A vent’anni” o i Brigata Stirner con Gigi Moi nell’ibrido rumore tra l’offlaghiano e il nerorgasmico di “Arriva l’onda”. C’è chi gioca su spunti degli originali per parare altrove, dalla deriva noise di uno Stefano Giaccone memore dei Nurse With Wound in “Piatti di plastica” al duetto voce-organo a tinte hypnagogic di Vanvera nella cupa “Scioglile i capelli”, fino a “Sottosopra” rivisitata da Sassolini e Gianni Maroccolo in chiave Dead Can Dance. Poi c’è anche chi approda in lidi lontani restituendo a Canu una validità artistica che va oltre ogni differenza di generi e stili, come una dapprincipio spoglia “Cosa c’è di più bello” che con i Magnificat e Raoul Moretti si trasforma in un botta e risposta voce-tromba da manuale di cool jazz. E della stessa pasta è uno dei momenti più alti del disco, nella versione synthpop di “Lievi favole” interpretata da Paolo Messere (ex Child Opera, ora The Big Self): un brano che rende indiscusso il talento del suo autore originale nel songwriting, e al contempo ne rivela la paradossale umiltà nel nascondere al mondo una canzone capacissima di apparire in qualche classifica, per poi infiammare nostalgicamente le feste negli anni a venire. Ma non a tutti piace. 

Si citavano all’inizio gli artisti dimenticati, e sarebbe impossibile stimare quanti là fuori non siano ancora stati vendicati dalla storia. Non è questo il caso di Gavinuccio, che ha fortunatamente lasciato collaboratori e ascoltatori carichi di stima per la persona e il suo percorso, giustamente intenti a renderne memoria. Il disco in formato doppio è disponibile per l’acquisto dal sito www.gavinucciocanu.org in edizione limitata di 300 copie. E proprio per rendere giustizia al talento dell’uomo, ci si augura di poterlo trovare prima o poi disponibile anche in quel marasma del web.

Parlare di Gavinuccio ha senso ed è giusto perché è stato un pioniere e i pionieri danno speranza a chi arriva dopo. Aprono sentieri mai battuti e hanno sogni grandi. E il sogno è necessario.”

Rita Oberti, aka “Lilith”