LERA – Rêverie

Simone La CroceMusica, Recensioni

SUBSOUND RECORDS 2025

Simon Reynolds ha sicuramente avuto le migliori intenzioni quando antepose al termine rock il suffisso post. Non previde certo che tutti coloro ai quali in seguito venne sistematicamente affibbiata quella etichetta, la rifiutassero in maniera categorica, concordando invece con quell’andare oltre che Reynolds aveva correttamente presagito e forse auspicato. Le band hanno tirato avanti per quella strada, inserendo man mano nuovi elementi, elettronica, bordoni, strumenti orchestrali, lasciando che il suffisso finisse davanti a tutto quello che poteva aiutare a incasellarle, fregandosene del resto. La definizione di post-qualcosa oggi sta sempre stretta a tutti, ma quella attitudine narrativa, vaneggiona, spesso comoda, qualche volta felicemente feconda, ha continuato a propagarsi e proliferare.

Probabilmente anche ai , di tali questioni di etichetta, non importa nulla. Anche perché, pur essendo all’esordio, i suoi componenti non sono proprio di primo pelo e, anzi, hanno un passato e un presente solido e conclamato. La discografia di sotto le spoglie di S A R R A M –- che su queste pagine trova ampio spazio – parla da sé. è uno dei protagonisti della factory e di recente ha composto un lavoro molto interessante per l’esposizione della World Press Photo al MuA di Sinnai. E le loro strade, con quelle di e , si sono intrecciate più volte in questi ultimi quindici anni, prima nei Thank you for Smoking, poi nei Charun e nei Gairo.

Il disco con cui si affacciano al mondo si intitola Rêverie ed è uscito per , label romana che ha pubblicato, tra i tanti, gente come Zu, Ainu, Bruno Dorella e, di recente, anche Dalila Kayros. Rêverie è un enorme collettore di mille cose, suoni, arrangiamenti, e tutt’altro che un pastone. Negli otto pezzi i tasselli del mosaico non solo combaciano, ma sono anche tutti lì dove devono essere e la piccola opera che vanno a formare è orchestrata con un piglio epico ultraterreno molto high fantasy. Quaranta minuti che sono tutto un intervallarsi di stacconi, melodie e sussurri: un lungo susseguo di attonimenti, tra i quali spicca per pathos e giustapposizione la voce di Aurora Atzeni. Un’alternanza di tensioni slintiane, luminose aperture in maggiore ed epiloghi devastanti, con una ricchezza compositiva e sonora che, onestamente, è raro sentire alle nostre latitudini. Sono architetture complesse quelle delineate dai Lera, gotiche, tetre e allo stesso tempo organiche e lussureggianti, cinematograficamente degne di Andrew Lesnie, teatro di scontri titanici e panorami immaginifici. L’alternanza costitutiva del “genere” qui si connota in modi forse non nuovi, ma nemmeno scontati: quando c’è da pestare non si lesina violenza, quando c’è da soffocare, tutto rallenta fino quasi a fermarsi, in cicli raramente uguali a se stessi. Già, perché i quattro non cedono alla lusinga della ripetizione, comodità funzionale al minutaggio, ma non necessariamente alla creatività. Anzi, strizzando l’occhio più al romanticismo wagneriano che alle orchestrazioni di ISIS o Godspeed, ai quali restano comunque profondamente debitori, i Lera mostrano di voler andare verso quell’oltre che è la vera propensione di cui si sente più il bisogno.

Ascolta